Reportage

#101 SULLE TRACCE DI ROSINA

testo e foto di Fabio Copiatti

03/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Sulle tracce di Rosina

di Fabio Copiatti

Rosina procede con passo regolare, apparentemente senza fatica, nonostante il pesante carico.

La immagino, quasi la seguo con lo sguardo, mentre s’allontana da Colloro, il suo villaggio, un centinaio di case rustiche e grezze come la pietra e il legno con cui sono costruite. Il paese è adagiato su un pianoro assolato che domina la bassa valle della Toce. Tutt’attorno, dove il versante degrada, chilometri di muri a secco disegnano un paesaggio di terrazzi coltivati, prati, frutteti. Da qui si sale, verso i monti al confine tra Ossola e Val Grande, in cammino tra alpeggi disseminati in boschi e pascoli, utili solo a sopravvivere.

Rosina è una contadina poco più che ventenne, dal corpo robusto ma aggraziato, nascosto nell’ingombrante veste. La indossa con disarmante naturalezza senza che sia da ostacolo al suo progredire lungo ripidi e tortuosi sentieri. Nel gerlo che grava sulle spalle, oltre alle vettovaglie che lascerà all’alpe, hanno trovato spazio anche i viveri di chi le pagherà la giornata.

Quattro alpinisti milanesi la seguono silenziosi, ma fiduciosi nel fatto che questa volta la meta sarà raggiunta, dopo il precedente fallito tentativo. Osservo anche loro, per niente a disagio su questi scabri e scoscesi sentieri, avvezzi a ben altre ascensioni.

Rosina è una portatrice di fine Ottocento, così erano chiamate le alpigiane disponibili ad accompagnare i soci CAI nelle loro gite alpine… ma è anche la compagna di questa mia escursione, prima immaginata, poi desiderata e infine negata da questa tragica e interminabile pandemia. La vita, si sa, non è avara di sorprese.

Da anni io e Sonia avevamo in programma di lasciare il paese, la valle e i monti che mi hanno visto crescere, ma mai avrei immaginato di farlo alla vigilia di un anno, quello dell’emergenza sanitaria da Covid-19, in cui mi sarebbe stato impedito per lunghi interminabili mesi il ritorno, anche solo fugace, alla mia terra nativa. Nel dicembre 2019 affetti e lavoro mi portano dal Verbano, sponda piemontese del Lago Maggiore, alla Valbelluna, entrambe terre di parchi nazionali, quelli della Val Grande e delle Dolomiti Bellunesi, di contadini, boscaioli, emigranti, alpinisti e partigiani.

Pochi mesi di “normalità” e mi ritrovo, tra marzo e giugno, come disperso tra desideri e ricordi, a osservare le brulle pareti della Schiara e a sognare il ritorno su vette a me più famigliari. Un nuovo libro in preparazione mi porta a sfogliare giornali e riviste di anni ormai lontani, alla ricerca di notizie e personaggi da raccontare.

Altri scritti, letti nel lungo periodo del confinamento, forse per un innato istinto di sopravvivenza, stimolano la mia fantasia e mi accompagnano in viaggi che nella memoria di qualche mese più tardi sembreranno momenti realmente vissuti, luoghi davvero visitati, persone veramente incontrate lungo le catene alpine e appenniniche con Paolo Rumiz, nelle aree selvagge della Gran Bretagna con Robert MacFarlane o nella wilderness americana di Jonh Muir.

Accade così che in quei giorni, su un numero della Rivista del CAI del giugno 1897, m’imbatto in una “portatrice”, una di quelle donne che sovente ho ammirato in antiche foto scattate durante gite alpine o inaugurazioni di ricoveri del CAI. In questi ultimi anni avrò letto centinaia di cronache delle prime “passeggiate alpine” pubblicate sulla stampa dell’epoca. Ho conosciuto guide alpine, soci CAI, gestori di rifugi, e di loro quasi sempre trovavo citato il nome.

Perché allora questo incontro è stato tanto diverso? Cos’aveva questa donna di così speciale da rendermi felice, addirittura eccitato? Il nome, per l’appunto! Quante volte ho letto resoconti di escursioni alpine in Val Grande in cui sono citate anonime portatrici, quante volte ho ammirato la loro forza (ma anche la loro bellezza e fierezza!), senza poter dare mai un nome a quei volti? Mi è riuscito, recentemente, con le figlie della guida alpina Felice Benzi, Carolina, Enrichetta e Virgina, immortalate con padre e gitanti all’alpe Scaredi, ma solo per deduzione, non perché fosse riportato il loro nome sulla foto o nella descrizione dell’escursione. Ora invece il nome era lì, stampato, ed era anche un nome bellissimo, Rosina.

Così, in pieno lockdown, mi sono ritrovato in cammino con lei e con i suoi “clienti” milanesi, percorrendo il sentiero che da Colloro, frazione di Premosello, conduce prima a La Motta, poi a La Piana, quindi a Stavelli, sulla via della Colma che conduce in Val Grande. O almeno, così mi è sembrato di fare, di essere lì con loro, in quei due giorni d’aprile di fine Ottocento, a vivere momenti ricchi di spunti per altre future gite e, soprattutto, a soddisfare – seppur virtualmente – quel desiderio di montagna che si accentuava sempre più con il trascorrere delle settimane.

La prima gita sociale del CAI Sezione Milano si sarebbe dovuta tenere domenica 4 aprile; gli otto soci iscritti avevano come meta la Rossola, «una vetta ossolana ergentesi sulla sinistra del Toce sopra Premosello, tra il Pizzo di Proman e il Pizzo delle Pecore o Moncerigo, nella catena che separa la Valle dell’Ossola dalla Val Grande d’Intra».

La cronaca della gita ci permette di conoscerne anche i nomi: Francesco Allievi, Alessandro Bossi, Giulio Clerici, Paolo Fraschini, Camillo Gorla, Giuseppe Sada e Carlo Torrani, capitanati da Carlo Magnaghi. Erano partiti da Milano la sera del sabato alle 16,10, passando da Novara, allorché la Linea ferroviaria del Sempione sarebbe stata completata solo pochi anni dopo, nel 1906. Il treno a vapore Novara-Domodossola li condusse a Premosello, «grosso villaggio assai pittoresco, abbellito da numerose villette, formante stazione sulla linea Novara-Domodossola». La scelta era caduta sulle sue irte montagne perché «poco “battute” dagli alpinisti».

Arrivata a Premosello alle 22,31, la comitiva fu accolta dal Sindaco, geom. Carlo Fontana-Rossi, il quale, avvertito della loro venuta, aveva telegrafato il mattino del sabato alla Sezione di Milano chiedendo informazioni su programma e numero dei gitanti, «allo scopo di far loro preparare convenienti alloggi all’Albergo del Gallo», nel centro del paese.

Tra una chiacchiera e l’altra, non sempre beneaugurante per la camminata prevista, arrivò la mezzanotte e il momento del congedo.

– Impossibile raggiungere la vetta della Rossola, domani è previsto maltempo – disse il Sindaco.

– In alto c’è ancora troppa neve e per di più fresca – aggiunse.

Nulla da fare, inutile cercare di dissuadere chi ha pianificato da mesi l’escursione, viaggiato per 100 e più chilometri e ora ha la meta quasi a portata d’occhio. Il mattino seguente, alle 6 in punto, gli alpinisti s’incamminano «con tempo brutto, scortati da un montanaro (non essendovi guide a Premosello) e da una portatrice».

Dopo un’ora di marcia, le previsioni del primo cittadino si avverano e una fitta pioggerella inizia a scendere dal cielo. Una densa nebbia li avvolge. Passate le alpi Lut, La Piana e La Motta, scendono in una valletta, dove un rio rumoreggia quasi volendo atteggiarsi a torrente.

Sono da poco passate le 9 e una leggera nevicata inizia a imbiancare il paesaggio. Gli alpinisti chiedono di fermarsi a far colazione, all’alpe Stavelli. Malgrado la neve cadente, preferiscono stare all’aperto, poiché nelle baite non si può stare, dicono, «per il loro profumo poco aggradevole».

Mi sembra di vederli, Rosina e il suo compaesano, rifocillarsi nel tepore della stalla e sorridere osservando i milanesi, avvolti nei loro tabarri ormai fradici e gelidi. Mi sovviene così il ricordo di quando qui, anni fa, trascorsi la notte in una stalla, disteso su un morbido cumulo di fieno, incurante di altri poco graditi ospiti. Le zecche non perdonarono.

Poco dopo le 10, lasciata in loco la Rosina che ha il suo bel daffare con i preparativi dell’ormai vicina stagione d’inalpamento, volgono a Nord Ovest su per i fianchi della Rossola.

– Saprà trovare la via di salita? – s’interroga la giovane mentre gli uomini svaniscono verso il nulla.

Conosce il suo compaesano. Come molti altri, oltre che contadino è anche cacciatore, quindi il territorio lo conosce più che bene. Ma in queste condizioni di scarsa visibilità è sicura che non si sia mai trovato. Lei invece sì, tante volte nel tardo autunno le è toccato andare alla ricerca delle capre nel bel mezzo di una tormenta.

Però non può seguirli, non glielo hanno chiesto, e poi sarebbe sgarbato nei confronti della guida da loro ingaggiata.

La comitiva oramai è immersa nella nebbia sempre più fitta, con il nevischio che oltretutto punge sul viso quei pochi centimetri quadrati di pelle rimasti scoperti da voluminose sciarpe e ampi cappelli in lana cotta.

Verso le 11 attaccano un immacolato pendio nevoso. Per procedere occorre gradinare. Le imprecazioni si disperdono nell’aria.
Il montanaro a cui si sono affidati si sta rivelando una pessima guida.

– Dov’è la vetta? Da che parte si sale? – chiede Magnaghi senza trovar risposta.

L’ora è tarda, lo sconforto tanto. Tra dedali di rocce, residui di nevai invernali, fianchi sempre più scoscesi lungo i quali qualcheduno rischia più volte di scivolare, nell’assenza di punti di riferimento che indichino il punto preciso in cui si trova, decidono a malincuore di ripiegare verso la via fin lì percorsa e ridiscendere a Premosello in tempo per prendere l’ultimo treno per Milano. Vi giungono allorché le circostanti vette nevose s’illuminano, quasi per scherno, agli ultimi raggi del sole che era rimasto ostinatamente nascosto durante tutta l’ascensione e con il dubbio di essere stati a pochi passi dalla meta.
Alle 23 sono di ritorno a Milano.

Qualche settimana dopo, però, vogliono riprovarci.
Infatti nel tardo pomeriggio di sabato 1° maggio, tre di loro, Magnaghi, Allievi e Torrani, con l’aggiunta di Alberto Riva, riprendono la via dell’Ossola con un tempo che anche questa volta nulla presagisce di buono. Arrivano a Premosello sotto una pioggia incessante. Rivedono con piacere il Sindaco che li riceve con le consuete premure e gentilezze. La notte è clemente e scaccia ogni nuvola. All’alba partono sotto un cielo stellato, scortati solamente dalla «brava e robusta portatrice Rosina Primatesta, che aveva già fatto parte della prima gita».

Ripercorrono lo stesso tragitto del precedente tentativo, ma con animo e attese ben diversi. Verso mezzodì sono sulla vetta della Rossola (2087 m).

Gli “Excelsior!” non mancano, così come lo sventolio del gagliardetto sezionale. Il cielo limpido e il panorama stupendo delle Alpi e della pianura li trattengono sulla cima per più di un’ora. Sono stanchi ma estasiati da cotanta bellezza. Alcune pose fotografiche immortalano il gruppo e quel che lo circonda. A sud ammirano il Proman ancora imbiancato, sullo sfondo il lago Maggiore e i laghi minori di Varese, Monate e Comabbio. A nord, nel fondovalle, appaiono Domodossola e un buon tratto del corso del Toce.

Poco dopo le 13 iniziano la discesa per Colloro, dove congedano Rosina, non senza averla prima ringraziata e ricompensata con una lauta mancia, oltre che del dovuto onorario da portatrice come da tariffario CAI.

– No, no, signore, non deve! – si schernisce la donna quando Magnaghi le porge le monete. L’orgoglio montanaro prevale per poco. Intasca la somma e s’allontana soddisfatta e consapevole di aver svolto un buon servizio.

Un’interminabile scalinata li riporta a Premosello. Un ottimo pranzo li ristora quel tanto per non saper rifiutare l’invito del Sindaco che li vuole nella sua villetta, dove dà la stura a parecchie bottiglie di prelibato vino e vuole essere ragguagliato sulla gita e su come si è comportata la portatrice di Colloro. Sicuramente seguiterà a raccomandarla alle comitive di gitanti.

Trascorsa una seconda notte nell’ospitale villaggio, dove dormono tra le braccia di Morfeo, la mattina del lunedì, col primo treno, tornano a Milano.

Mi ridesto. Dal balcone di casa osservo le creste dolomitiche leggermente imbiancate, e penso alle tante portatrici agordine o cadorine e a quell’“orgoglio della fatica” che le accomuna alle colleghe piemontesi. Non ho una foto di Rosina, purtroppo, e pertanto chiedo venia a lei e a voi se per questo scritto ne uso una di repertorio con qualche sua “collega”, tra le quali ci sono Carolina, Enrichetta e Virginia Benzi, al lavoro tra Ossola e Verbano.

Mi riprometto, però, di tornare quanto prima al solatio paese ossolano, piccola gemma all’ingresso del Parco Nazionale Val Grande, per mettermi sulle sue tracce e inerpicarmi ancora su quei monti e vivere nuove intense giornate.

_____
foto:
1. Gita CAI in Val Grande, 1890, archivio CAI Sezione Verbano.
2. Dal Pizzo delle Pecore, foto Erica Dinetti.
3. Colma di Premosello e al centro la Punta della Rossola.

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Fabio Copiatti

Fabio Copiatti

Sono nato a Verbania nel 1963, da genitori originari di Cossogno, paese al quale sono profondamente legato. Dal 1996 al 2019 ho lavorato per il Parco Nazionale Val Grande. Trasferitomi nel dicembre 2019 all’ombra delle Dolomiti Bellunesi, oggi mi occupo di politiche per la sostenibilità. Ricercatore storico, biologo e guida escursionistica ambientale, da trent'anni studio la cultura e le tradizioni alpine. Tra i miei libri ricordo gli ultimi: "A passo di vacca. Dalla Val Grande alle valli Ossolane con Antonio Garoni (1842 -1921), la guida alpina che tracciò il sentiero Bove", Azimut, Verbania, 2018 (seconda edizione ampliata e aggiornata 2019) e "Cicogna ultima Thule", MonteRosa edizioni, Gignese, 2020.


Il mio blog | "A passo di vacca" è la mia filosofia del camminare, ovviamente lento, osservando quello e quelli che incontro lungo strade e sentieri. Questo blog raccoglie pensieri, racconti e frammenti di storia, editi e inediti, dedicati a terre e acque lepontine, tra lago Maggiore e valli ossolane.
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