Realdo e il monte Saccarello (foto Giampiero De Zanet)
testo e foto di Giacomo Revelli / Genova
Non ricordo la prima volta che lo vidi, ma è uno dei miei primi ricordi. Eravamo nell’orto con mio fratello e nonno Rnéstu che lavorava la terra. Affondava il tridente, lo spingeva giù con una pedata. Poi lo scalzava, la terra si sollevava e s’apriva e come una bolla di sapone.
Dalle zolle venivano fuori pomi dorati e chiari. Pensammo che avesse trovato un tesoro.
Ne prese uno, lo pulì e ce lo passò. Era grande e pesava come un sasso di fiume.
«Cosa sono nonno?», gli domandai.
«R’ patacche!» rispose, “patate”.
«Ma come facevi a sapere che erano sottoterra?».
«Ah, ah, ah – nonno si fece una bella risata, con quella strana ruga che gli veniva vicino al naso quando rideva – Sachrnùn! Uh! Rutoliche! Me l’à dit r’ Sciacarée!» e indicò qualcuno dietro di sé. Fu allora che lo guardai. La vista era ancora occupata dalla sagoma di nonno Rnéstu in maniche di camicia che alzava il forcone e lo gettava a terra, sbuffando. Ma dietro c’era lui, r’ Sciacarée.
E allora? Lo guardavo per la prima volta. Fu come quando non s’è mai udito un tuono o si vede per la prima volta la neve o il mare: tremi, ti meravigli e anche un po’ ci soffri, quando capisci che è qualcosa che esiste da sempre e tu sei solo l’ultimo degli uomini a saperlo.
Più lo guardavo e più mi stupivo: sembrava lontano e vicino, semplice e impossibile insieme, lieve e solido allo stesso tempo. Ero stordito. Per la prima volta m’accadeva che ciò che vedevo non era ciò che guardavo. Era diverso e simile a nulla di ciò che avevo guardato mai prima al mondo. Subito mi venne una voglia matta di toccarlo. E volevo correre fino alla fine dell’orto, e andare oltre lo steccato, per toccarlo. Ma cosa avrei toccato? R’ Sciacarée o quello che credevo di lui? E poi si può toccare una montagna? Come si fa? Forse solo allora, con la fede di un bambino, sarei riuscito a toccarlo davvero. Oggi, invece, una montagna non la si possiede finché non la si scala fino in cima.
Stavano arrivando alcune nubi. La loro ombra correva già sulle spalle della montagna.
Nonno Rnéstu le guardò pensieroso. S’accorse che m’ero imbambolato a guardare all’insù.
«Eh! Loch ti aguaiti? L’ àigüra?», mi chiese se avevo visto un’aquila.
«Ci voglio andare nonno. Mi ci porti?».
«Und?».
«Lassù, sur’ Sciacarée!».
«Ah… eh ben. Ëndamm. Ma dopu chë amm avü mangià!», mi rispose. Ci saremmo andati dopopranzo, come se fosse una passeggiata il duro sentiero che parte in paese e passa da Collardente. Ma quel pomeriggio arrivò un grosso temporale e restammo a casa. Nonno Rnéstu, però, sembrava non aver dimenticato la promessa di portarci sul Saccarello. Ci scherzava. «Studiai, studiai – diceva mentre facevamo i compiti – pöi nue ëndamm sur’ Sciacarée…». E, ridendo: «Ah… R li vòo ciü mai a fàa in bon paštùu che in bon dutùu». Ci teneva che finissimo i compiti delle vacanze.
Realdo e il monte Saccarello (foto Giampiero De Zanet)
Oggi posso dirlo, c’è un mondo prima e un mondo dopo aver visto r’ Sciacarée. Ora non faccio più caso a nulla, ma allora, mi accorgevo subito di tutto. Le cose cambiavano ogni giorno. Sì: dopo aver visto r’ Sciacarée, sapevo riconoscere una ad una le cicale del nostro fazzoletto d’orto. Capii che l’acqua del rigagnolo che nasceva sulle pendici del monte era la stessa che si buttava in mare nel torrente giù a valle. E scoprii che alcuni alberi perdevano le foglie e altri no. E che ad un certo punto arrivavano le rondini. Tutte cose ch’erano così da sempre. E io ero sempre l’ultimo a saperlo. Imparai a non arrabbiarmi più. Ma chissà se quell’estate fossimo andati sur’ Sciacarée quante altre cose avrei scoperto.
Purtroppo non ci fu più tempo, vennero su i miei, tornammo in città e ricominciò la scuola. Ma ciò che avevo visto non rimase muto, mi sentivo fortunato, volevo condividerlo. Iniziai a raccontarlo agli altri. Dicevo: «Ho visto r’ Sciacarée», «Ho toccato r’ Sciacarée». Avrei anche raccontato di esserci salito, ma non era vero. Era più forte di me. Non parlavo d’altro. Lo scrissi in un tema, ma non devo essermi spiegato bene, oppure alla maestra non piacque, forse perché era mezzo scritto in brigasco: l’estate con il nonno si faceva sentire. E i miei compagni mi prendevano in giro: «Uh! Ma come parli? Ah! Non ha mai visto una montagna!». Non capivano.
Le nostre estati a Realdo col nonno cominciarono ad accorciarsi, tanto che ora mi sembrano una sola, lunga estate, durata dai 5 agli 8 anni.
Nemmeno gli anni successivi nonno riuscì a portarci sur’ Sciacarée. Ma non per colpa sua: cominciarono a manifestarsi i problemi con cui dovette convivere fino alla fine. Le sue mani cominciarono a gonfiarsi, le giunture gli dolevano, si muoveva a fatica. Era la gotta. Prese lui come aveva preso suo padre e qualche cugino in paese. Ma finché poté, non rinunciò alle sue patate e a tutto il resto. Gli venivano difficili, invece, cose banali come farsi la barba da solo. Così gli ultimi tempi l’aiutavo io. Allora abitava già con noi, non poteva più vivere da solo, lassù. Lo portammo a casa in Riviera. Ma si lamentava, non era felice.
Lo mettevo su una sedia che dava sul terrazzino, con la luce del mare che gli inondava il viso. Ma negli occhi sembrava gli si formassero delle lacrime. Pensavo fosse a causa della schiuma da barba, ma non era così.
«Perché non sei contento? Qui c’è il mare!», gli disse papà, mentre lo rasavo.
«Ah, ma chi mi en végh r’ Sciacarée nu!», rispondeva. Non poteva più vedere il Saccarello. E mi guardava. Sapeva che potevo capirlo.
Ci raccontava sempre di quella montagna. Che in cima, se vuoi, con un salto, vai in Francia e con un altro torni in Italia. Che se nasci da una parte sei piemontese e dall’altra francese; ma lui era nato di qua, e parlava brigasco. Che oggi noi siamo come le nuvole sur’ Sciacarée: possiamo decidere dove andare e spostarci di qua e di là come vogliamo, senza che nessuno blocchi la nostra ombra. Ma c’è stato un momento dopo la guerra che lui e la sua famiglia furono costretti a scegliere dove stare, da un lato o dall’altro della linea che passa sulla cima dr’ Sciacarée anche se non erano nati lì. E che i boschi, i larici, l’erba e il resto erano gli stessi da entrambe le parti, ma, se le sue pecore andavano a mangiare di là, le guardie sparavano. «Ah, povri nue Reaudée», diceva. E poi si riprendeva, ci abbracciava forte e insisteva che anche noi potevamo essere brigaschi, ma dovevamo salire sul Saccarello, per capirlo. Gli dicevamo di sì, ma allora non ci capivamo granché.
La dorsale del Monte Saccarello da Borniga (fraz. Realdo)
Carûg di Realdo
Dopo che nonno se ne andò non salimmo più a Realdo per molto tempo. A papà non è mai piaciuto andare lassù. Mise anche in vendita la vecchia casa. Non ci disse nulla. Forse sospettava che non saremmo mai stati d’accordo. E se un giorno anche noi avessimo scoperto d’essere brigaschi? Per fortuna non la comprò nessuno. Il cartello “vendesi” se lo portò via qualche nevicata. A chi volete che interessasse in quegli anni una casa in un paesino di montagna senza impianti da sci e dove non ci sono locali e discoteche? In Riviera nessuno sarebbe tornato dove i suoi vecchi erano scappati. Ma sapevo che non era vuota: l’abitavano i ghiri, le arvicole e sotto il tetto sicuro avevano fatto il nido i rüchiròi, gli uccelli che volavano tra le rocce dr’ Sciacarée.
Oggi io e mio fratello abitiamo in due città lontane. Lui si è fatto una famiglia in Francia, io in Italia, non so spiegare bene com’è andata. Ma nonno Rnéstu non aveva del tutto ragione: non siamo del tutto liberi di scegliere da che parte stare dr’ Sciacarée. Alla fine è la vita che decide per te.
Ci vediamo d’estate: abbiamo ristrutturato la vecchia casa del nonno e ci passiamo insieme le vacanze. Ma sur’ Sciacarée non ci siamo ancora saliti. Chissà che aspettiamo. Quando siamo a Realdo non facciamo altro che parlare delle giornate con il nonno nell’orto sotto il Saccarello, delle serate che non finivano mai e delle mattine a contare le cicale. Non parliamo d’altro. Come un disco rotto. Le nostre mogli non ne possono più di sentire quelle storie: «Ah! Ma cosa ci troverete in un orto e due patate?».
Con mio nipote invece mi diverto tantissimo. Ha 5 anni, giochiamo insieme alle bocce quadre nei carûg in paese. Lui mi parla in francese e io gli rispondo in brigasco.
«Ti esti fürb com ina gurp», gli dico, quando usa un muro per fare una sponda.
E lui ride, ride. E ha quella rughetta, proprio lì, vicino al naso.
A Nino Lanteri, a Eduardo e a tutti gli altri brigaschi.
Mi fa sognare. Mi piace quando una storia mi porta via. Grazie.