testo e foto di Jacopo Bertella / La Spezia
«Nonno, quante pipe hai!»
Questa la considerazione di Giulio che guardava incuriosito il tavolo di legno ricoperto di tutta l’attrezzatura e gli accessori per pigiare o levare il tabacco nel fornelletto e sparse, varie pipe dalle differenti forme.
Fuori sta nevicando, attraverso la tendina della finestra un turbinio di fiocchi bianchi spinti dal vento. Giulio, allora ragazzino di tredici anni, abitava in fondo alla valle alpina e saliva su, in alto, a trovare il vecchio nonno quando era libero dagli impegni di scuola, sport ed altro.
«Beh» risponde Angelo, «dovesse ritornare la guerra avrò da fumare». Una grande emozione al ricordo lo assale, ma non vuole dimostrarlo. «Caro Giulio» aggiunge, «sapessi quanto si soffriva su, al fronte, una continua angoscia e disperazione, neanche un tiro di pipa… ci sfamavano con una brodaglia, quasi sempre fredda!»
Giulio, quando sentiva il nonno raccontare, veniva preso da una sorta di curiosità, mista ad orgoglio, si guarda attorno, questa piccola baita costruita con legno e pietre, dalle mani callose del vecchio.
«Avevo diciotto anni, pochi più di te, eppure ho dovuto rinunciare a tutto, per andare soldato assieme ad altri cinque del paese, siamo partiti. Non immaginavamo cosa ci aspettasse.»
Una pausa, gli occhi del vecchio si abbassano sul pavimento, si alza e lentamente si avvicina ad una vecchia cassapanca dalla quale preleva un ormai logoro fazzoletto, ingiallito dal tempo, ma finemente ricamato. «Quanto ci amavamo con Irene» soggiunse pensoso, «il giorno prima di partire per la guerra, ci demmo appuntamento sotto il vecchio cirmolo, accanto al crocifisso in legno, lì eravamo soliti trovarci e stare assieme, il mondo lo sentivamo nostro e nulla avrebbe mai potuto dividerci, o almeno lo credevamo. Che tristezza, che pena questa volta, il mio cuore grondava dolore, chissà se e quando ci saremmo rivisti. Io l’amavo, mi sentivo perso senza la mia Irene.»
Il vecchio a questo punto ha un sussulto, una pausa, lo sguardo nel vuoto, prima di separarci, disse: «Mi ha dato questo fazzoletto, mi avrebbe ricordato lei, mi fece promettere che glielo avrei riportato quando fossi ritornato dalla guerra; quanto amore in quel fazzoletto!»
Da una galleria rifugio, le 3 Cime di Lavaredo
Giulio volge lo sguardo fuori della piccola finestra, la neve era aumentata di intensità ed ormai ricopriva ogni cosa, un silenzio surreale aveva avvolto tutto. Il nonno mai aveva fatto cenno a questa sua parentesi di vita, così romantica e sofferta. Il vecchio alza il fazzoletto e lo annusa, come voler sentire ancora un odore, un profumo perso nel tempo.
Giulio, in quel magico momento, prende ardire e chiede: «Ma poi vi siete rivisti, vi siete sposati?»
Angelo trasforma l’espressione del volto che diventa cupo e lentamente risponde: «In trincea non eravamo nulla, non contavamo niente, vedevo morire tutti i miei compagni, uno ad uno, uno scialle di morte era poggiato su di noi, paura e disperazione erano le nostre compagne di vita, quella vita da soldato che poteva fuggire via in un attimo. Una sera d’autunno durante un furioso bombardamento, rimasi ferito, fui sbalzato in aria, ricaddi al suolo intontito, non capivo, ero ancora vivo? Poi un forte dolore. Svenni. Unica sensazione, volere rimanere legato alla vita, dovevo! Dopo molto tempo di amnesia totale, lentamente cominciavo a riavere ricordi, ebbi forte, l’assoluta certezza di voler rivedere la mia Irene.
Fu così che decisi, poiché le mie condizioni incominciavano a migliorare, di fuggire dall’ospedale dove mi avevano poi trasportato. Rubai dei vestiti civili, negli spogliatoi, e atteso il cambio turno dei medici, fuggii. Attento, silenzioso, queste caratteristiche acuite dal vivere in montagna, fuggii su, verso le mie vette, su verso i sentieri che mi infondevano coraggio, su dove non mi avrebbero trovato. Che meravigliosa sensazione di pace interiore, sentivo la natura primordiale che mi proteggeva e mi dava asilo. Da tempo non provavo queste sensazioni. Ritornavo a parlare con le stelle, il fruscio delle foglie mi rassicurava, stava riprendendo la vita in me.»
«Ma Irene?» Giulio chiese, «Ma non sei corso da lei, perché?»
«Non potevo farmi riconoscere in paese, dovevo aspettare! Scoprii un giorno che la guerra era finita, per caso trovai un volantino. Ora sì, che emozione, corsi verso la casa di Irene, ero confuso, bussai trafelato ed ansioso, venne ad aprirmi proprio lei. Angelo a questo punto si ferma, deglutisce, lo sguardo di ghiaccio. Irene non poteva credere fossi io disse, le consegnai in un impeto di passione il fazzoletto, pegno del nostro amore, mi fermai, lo sguardo scorse il suo ventre, aspettava un figlio! I suoi occhi pieni delle lacrime che aveva ancora, parlavano di noi due, disperatamente mi rivelò che le era stato comunicato che ero morto al fronte, sotto un forte bombardamento, per molto tempo non volle credere a quella nefasta notizia, ma non vedendomi più ritornare, si era arresa ed aveva sposato un altro. Non aggiunsi nulla, in silenzio me ne andai, trafitto da questa verità. Per anni andai in paese il meno possibile, non mi avvicinai più a quella casa. Ero diventato solitario, le montagne erano la mia compagnia, le mie amiche di sempre, mi inebriavo di profumi, odori e rumori della natura, del bosco.»
Il Monte Paterno
Trincee sul Monte Piana
Il vecchio, si alza, ripone il fazzoletto nella cassapanca e guarda fuori, nel frattempo, sta smettendo di nevicare e Angelo e Giulio escono sorreggendosi: «Ma non l’hai più rivista, nonno?»
Angelo si irrigidisce, aggrotta la fronte e lentamente sussurra: «Dopo molto tempo ritrovai il coraggio di passare vicino alla sua casa, Irene stava stendendo i panni e un bimbo vivace stava giocando accanto a lei. Mi vide, cadde il lenzuolo dalle sue mani, il bimbo radioso mi salutò, io risposi con affetto, come ti chiami, bel bambino? Sollevò lo sguardo, due occhioni neri come quelli della madre mi fissarono, Angelo! Mi rispose. Il mio sguardo, pieno di lacrime incrociò quello di Irene, superflua ogni parola, mai ci eravamo amati così intensamente!»
Una storia raccontata da Giulio, allora bambino e ora quasi settantenne, tutta la vita è quasi trascorsa ed in cuor suo conserva incancellabili ed inalienabili le sensazioni di allora. La baita che lo accoglieva, le finestre, la disposizione delle pipe, il tabacco nelle buste di carta, gli odori, le abitudini di vita, lassù tra le montagne, l’entusiasmo di poter andare là dal nonno, che burbero, e solitario sprigionava affetto e comprensione per l’adorato nipote, senza alcuna parola il sentimento emergeva e sommergeva il bambino, che trovava l’esaltazione raffinata dell’amore. Un amore che sessant’anni dopo resta intonso, incrollabile, ferreo. Un grande privilegio essere complice di questo racconto di vita, che, durato anni, ha portato tanto dolore e tante illusioni, Giulio si rende subito conto della tragedia vissuta dal nonno, ma questa ridda di sentimenti fino ad allora sconosciuti, ne fa un eletto e incalza la domanda: «Ma poi vi siete rivisti? Vi siete sposati?»
La positiva conclusione che avrebbe voluto ascoltare, perché doveva esistere un fine lieto. Si trova, nel momento ad ascoltare al contrario un’altra dura e severa realtà. Resta però su un differente piano che non ha portato sollievo, il grande amore, il sentimento immacolato ed incancellabile, l’ascesa ulteriore del rapporto che purtroppo poche persone possono intendere e di ciò essere pienamente soddisfatte e nutrite e Giulio diventa inconsapevolmente uno scrigno di verità e di elevate valutazioni storiche e morali. Un inaspettato e forse sorprendente piano di vita, dove prevale un limitato parallelismo tra gli avvenimenti, le sofferenze patite, l’acquisizione ed elevazione del puro sentimento cornice del mondo del vecchio nonno.
Il bianco della neve, il silenzio totale, come culla di riflessione.