La salita al Brocken
testo e foto di Gianni Mittempergher / Folgaria (TN)
Proprio non se lo aspettava, non credeva davvero si sarebbe più fatto vivo. Non dopo quanto era successo sullo Harz. Eppure la lettera, breve, scritta con una grafia da contabile prussiano, proveniva da suo fratello Alfred.
Karl l’appoggiò sullo scrittoio ingombro di fogli, si alzò dalla sedia, fece alcuni passi e tolse dallo scaffale un pesante volume. Lo aprì, voltò qualche pagina, corse a un capitolo, scorse un paragrafo e si accorse con sommo sbigottimento di non riuscire a comprendere nulla. Tornò alla lettera, la rilesse.
Poco più di dieci anni prima, in quel 1896 che lo vide laurearsi summa cum laude in astronomia all’università di Monaco di Baviera, Alfred gli propose di compiere una escursione sul Brocken, la più alta tra le cime nella catena dello Harz. Karl accettò di buon grado, contagiato dall’entusiasmo del fratello minore. Presero alloggio in una locanda affacciata sulla piazza del municipio di Wernigerode. Dormirono sodo, a lungo, nonostante gli schiamazzi degli avventori provenienti dalla sala al pianterreno. La mattina seguente era fredda, da est soffiava un vento ostile. La vetta scompariva rapida per tornare poi visibile di nuovo, all’improvviso, vagamente discosta dal punto in cui la ricordavano, ora all’apparenza vicina, ora lontana, quasi fosse impegnata in una scaramuccia con le nuvole fatta di finte, trucchi ottici, elusioni tattiche. La carrozza li lasciò sul ciglio della strada in corrispondenza di un crocicchio, al margine del bosco. Si incamminarono, entrando nel fitto della vegetazione.
Mossi da una irrequietezza che era dell’epoca, della giovinezza a cui appartenevano e specifica del carattere di entrambi impiegarono meno del previsto a raggiungere la cima. Più veloce di loro era stata tuttavia una perturbazione che in breve tempo rovesciò tutt’attorno la prima neve della stagione, impastando il suo bianco a quello della nebbia. Furono costretti a cercare riparo. Non lo trovarono. Ma poiché un riparo era necessario per aver salva la vita se lo fecero, costruendo un perimetro di pietre che coprirono con dei rami. Vi si introdussero come bruchi nel bozzolo, diedero fondo alle scorte di cibo, dividendosi sgomenti l’ultima noce. Tentarono un fuoco con degli sterpi raccolti sotto la coltre ancora insufficiente a cancellare la speranza, ma i pochi fiammiferi di cui disponevano mancarono beffardamente l’innesco. Bevvero l’acqua rimasta nelle borracce, appena prima che congelasse.
Per ingannare un destino più che l’attesa andavano intanto ricordandosi le uscite compiute insieme sulle montagne della Foresta Nera o delle Alpi svizzere e bavaresi: la memorabile osservazione di una eclissi solare da una vetta adiacente allo Jungfraujoch, laddove qualche decennio più tardi sorgerà l’osservatorio astronomico Sphinx; l’adolescenziale, e dunque generoso, ma prematuro, tentativo di raggiungere la vetta dello Zugspitze. A Karl venne da pensare a come il grado di difficoltà innescato da tali avventure stesse crescendo in diretta proporzione con il livello di approfondimento verso cui egli spingeva la sua ricerca. Gli pareva inoltre che solo l’esposizione della propria esistenza alla dimensione della fatica e del pericolo consentisse alla sua perspicacia di guadagnare nuovi risultati in ogni ambito di riflessione. Si sentì impegnato in una sorta di processo alchemico: tramite la trasformazione di una certa dose di rischio personale in fiducia nelle proprie facoltà poteva avere accesso alla piena comprensione dei complessi fenomeni che accadevano nello spazio senza fine.
La salita al Brocken
In quel tempo stava elaborando una teoria sulla deformazione subita dai satelliti per effetto dell’attrazione gravitazionale, teoria che sfociò nella tesi con cui ottenne un posto da assistente all’osservatorio Kuffner. Sorrise all’idea piuttosto strampalata di poter considerare perfino se stesso una specie di satellite, costretto ad un’orbita definita dalla massa delle montagne fra cui si aggirava. Fu quindi forse in ragione di tali suggestioni che Karl, nella tana sullo Harz, togliendosi i guanti e soffiandosi sulle dita, si mise a tracciare sul taccuino che portava sempre con sé alcune annotazioni, riguardanti i calcoli relativi ad una serie di curve ellittiche. Ne ricavò dapprima un sordo dolore, poi una macchia sulla cute che assunse un colore bluastro, infine, se ne accorse successivamente, una lesione ai tendini della mano destra che diventerà cronica. Effetti collaterali di una febbrile passione.
Al sopraggiungere del buio, costretti dal freddo a ripetere una prassi della fanciullezza da cui la loro età li aveva bruscamente scaraventati lontano, si abbracciarono, scivolando in un torpore prossimo al letargo. Riscossisi per paradosso, in virtù cioè dell’improvviso silenzio seguito al placarsi della tormenta, uscirono finalmente dal buco e misero i piedi dentro la notte, con movimenti da sonnambuli. La neve era rischiarata da una luna a tre quarti e da quelle stesse stelle che di lì a poco diventeranno il principale oggetto di indagine di Karl o, per dirla altrimenti, la sua divorante ossessione. Procedettero a tentoni, impossibilitati a riconoscere la via del ritorno, in fuga dal terrore, strisciando progressivamente fuori dal culmine della disperazione. Raggiunsero una fattoria e vi trovarono chi sapeva accogliere quei due spettri scesi dal Brocken esausti, malconci, vivi.
Alla scampata tragedia erano seguiti anni di distacco. Nessuna notizia riguardante il non ancora affermato pittore Alfred aveva più raggiunto Karl, tranne l’accenno, riferitogli da un conoscente comune, della decisione del fratello di stabilirsi ad Amburgo, città che più di altre sembrava poter apprezzare le sue opere. Del resto, se Alfred non aveva fatto alcun passo per riavvicinarsi a Karl, questi aveva ormai sciolto la sua ampia falcata in tutt’altra direzione. All’alba del nuovo secolo Karl era totalmente dedito allo studio, così assorbito dai suoi interessi scientifici da trascorrere poche ore al giorno fuori dagli austeri edifici delle università tedesche e da eleggere le straordinarie cupole dei telescopi più potenti a proprio confortevole rifugio. Scalò rapidamente tutti i gradini della carriera accademica.
Nel corso della sua vita lavorerà a Vienna, poi a Monaco, a Göttingen sarà nominato professore, il più giovane di Germania, infine approderà a Potsdam. Viaggerà in Algeria, a Tenerife, inseguendo eclissi e comete. La sua instancabile intelligenza lo condusse sui sentieri della fisica, della chimica, della matematica, dell’astronomia, sentieri che percorse con tale slancio da costringere i colleghi ad arrancare, smarrendosi sulle sue tracce. Si immerse nel vasto campo della scienza sperimentando la medesima frenetica esaltazione che lo aveva colto ogni qual volta aveva girato le spalle al caotico movimento dei suoi simili, per salire su un monte. I panorami che gli si spalancavano davanti, raggiunte quelle vette della speculazione che nessuna mente aveva mai calcato prima, gli davano una vertigine di cui avvertiva con sgomento di avere un desiderio sempre maggiore. Osservò, calcolò, ipotizzò. Scoprì i diversi colori delle stelle e riuscì persino a misurarli, con un marchingegno di sua invenzione.
Pubblicò gli esiti delle sue ricerche in articoli che rappresentano uno dei più forti impulsi all’indagine sulla natura dell’universo, pochi altri nel Novecento redassero un tale numero di scritti scientifici. Il suo orizzonte divenne lo spazio, in esso vide ciò che fino ad allora era ignoto a chiunque. Si spinse oltre. La corda che lo teneva appeso alle pareti della scienza canonica si andava assottigliando sempre di più. Si romperà infine, lacerata dalle conseguenze che intuì celarsi tra i picchi della teoria della relatività generale. Nella storia del pensiero si assisterà allora, contrariamente alle attese, al singolare fenomeno di un intelletto che, precipitando, ascende ai vertici della conoscenza.
Lo spazio-tempo di Schwarzschild.
L’ultima noce.
Tornò alla lettera, la rilesse.
Come interpretare l’invito di Alfred? Si trattava di una provocazione o di un tentativo di riconciliazione? Della montagna più alta d’Europa, di questo si trattava, di una sfida, da qualsiasi lato si propendesse per interpretare la faccenda. Infilò la lettera nella busta, la ripose tra altre. Si avvicinò alla finestra, se ne scostò turbato, uscì dallo studio, raggiunse il sottoscala, si sedette su uno sgabello e passò uno strato di grasso sugli scarponi chiodati. Avvertendo una forma inedita di spossatezza accarezzò il becco di una piccozza e si ritirò in camera da letto.
Si incontrarono a Chamonix una sera di fine agosto del 1907. Alfred, giunto in paese un paio di giorni prima, lo ragguagliò sugli aspetti pratici della salita. Verificò i materiali e le scorte, spuntando le singole voci da una nota redatta con estrema perizia, spiegò sul tavolo della stanza una mappa e tracciò con l’indice un itinerario. Tacque su quanto era accaduto tra loro, non fece alcun cenno al precipizio che il tempo aveva spalancato. Tutto era pronto, ogni cosa programmata nei minimi dettagli, si prospettavano giornate gloriose. Nel silenzio del mattino successivo la coperta d’ombra scivolò via incerta sul versante opposto della valle quando uscirono dal bosco a monte di St. Gervais, il sole intiepidì loro gli zigomi allorché scollinarono sul Nid d’Aigle. Prestarono la dovuta attenzione nell’attraversamento del Grand Couloir, una cordata li precedeva provocando la caduta di massi che filavano come meteore dalle traiettorie imprevedibili.
Giunsero al refuge du Goûter a metà pomeriggio. Presero posto nella piccola capanna edificata l’anno prima, scambiando secche frasi di circostanza con i due alpinisti austriaci e la guida francese che li accompagnava. Destatisi da un sonno scarso e molle si prepararono alle prime luci dell’alba. Mossero insieme dal rifugio e fu nel tratto dall’Aiguille du Goûter al Dôme du Goûter che decisero di formare una unica cordata. Il ritmo costante permise qualche rapido scambio di parole e favorì la scoperta stupefacente di interessi comuni. Improvvisamente Karl, ultimo della fila, sciolse il suo nodo, scartò di lato, si avvicinò a un crinale e saggiò la consistenza del ghiaccio con la punta della piccozza. Tracciò segni e numeri su quella lavagna perenne. L’impressione che suscitò nei compagni fu profonda. Sembrava così assorto, distante, incongruo che la concentrazione praticata dai cinque fino a quel momento deflagrò, infrangendosi contro l’orizzonte su cui la sagoma di Karl si stagliava, disincarnata.
A nulla valsero i richiami della guida, egli orbitava in un altrove separato, lontano da lì più che non ciascuno dei compagni di salita dai rispettivi luoghi di provenienza. Gli si avvicinò il più giovane degli austriaci, sedotto da una malìa incomprensibile, di cui non faticava tuttavia a rintracciare l’origine. Studente alla facoltà di fisica dell’università di Vienna riconobbe nei simboli che Karl fissava ora immobile, un passaggio dell’equazione che rappresentava il massimo grattacapo per le più brillanti menti europee del tempo. Lo riscosse e lo ricondusse al suo posto, sorreggendolo per un braccio.
«Procediamo, la meta non è lontana» sussurrò Karl, rifacendo il nodo sulla corda.
Dalla catastrofe della Prima guerra mondiale Karl Schwarzschild spedì una lettera ad Albert Einstein. In essa viene formulata la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della relatività generale, pochi mesi dopo la pubblicazione. Si tratta della soluzione di un problema che Einstein disperava avrebbe trovato una risposta soddisfacente prima della sua morte.
Tale risultato, che lo stesso suo scopritore considererà al principio una aberrazione matematica, verrà chiamato “la singolarità di Schwarzschild” e sarà all’origine di una delle idee più suggestive che la specie umana sia mai stata in grado di concepire: il concetto di buco nero. Passeranno 24 anni prima che la profezia di Schwarzschild trovi la sua dimostrazione, ad opera di Oppenheimer e Snyder.
Karl spirò l’11 maggio del 1916, dopo grandi sofferenze causate dal pemfigo, una malattia contratta sul fronte orientale. O forse aveva solo oltrepassato l’orizzonte degli eventi, vale a dire, secondo i principi dell’astrofisica, quella superficie che divide lo spazio-tempo in due regioni non connesse causalmente, dove tutto può entrare, ma nulla può uscire.
Bravo Gianni, é un racconto speciale.
Grazie Marco, mi fa piacere tu lo abbia apprezzato.