Ne parla anche Mario Rigoni Stern. In Vecchia America lo zio Barba si ritrova a più di tremila metri “a scavare mulattiere e strade sui fianchi di quell’alta montagna dove nevica anche d’estate”. Oggi si scava ancora, ma non sulle vette: più giù a fondovalle un tunnel s’inabissa nel sottosuolo, erode le profondità rocciose, prosciuga le sorgenti ed erutta, come un furioso vulcano, milioni di metri cubi di terra. All’inizio la questione dei detriti fu un problema. Poi arrivò il progetto Galaberna.
C’è chi fu scettico all’inizio, ma già la fase di test, quella dello snow farming fu un successo. A primavera, le ruspe accumularono i residui di neve compattandoli sotto strati di trucioli isolanti, a loro volta protetti da i da enormi teli geotermici. Così, impacchettata, la neve giunse alla stagione successiva, pronta per essere stesa sulla piste. Ed ecco l’intuizione: perché accontentarsi di stoccaggi così limitati? Perché non preservare la neve di un intero versante direttamente sui pendii?
L’idea fu presentata all’apertura della stagione sciistica in una sala gremita: il tintinnio dei calici e le risate di rito vennero interrotte da una presentazione che ammutolì il pubblico. Sullo schermo correvano veloci le immagini: i primi skilift, lo slittone in legno, le pubblicità, le gare, i vip, gli anni sessanta ed il declino, l’innalzamento della temperatura media della valle, una linea che sale vertiginosa in rosso. Poi una scritta: AGIRE SUL SURRISCALDAMENTO. E qui, qualcuno dei presenti, s’indispettì pensando che il tutto si risolvesse nella solita tiritera ambientalista: “è tutta colpa nostra, dobbiamo cambiare le nostre abitudini, bla bla bla”.