Ti senti nudo e ti accorgi che l’ignoranza e l’arroganza regolano i fenomeni sociali e muovono le masse, che della tua sensibilità di uomo agli altri uomini non frega nulla, soprattutto a chi detiene il potere, che essere rispettosi significa essere coglioni, che la regola è quella del più forte, del più furbo, del cinico, dell’indifferente.
In un ambiente asfittico dove la cultura prevalente è quella dei giullari, dei social intasati di banalità, dell’arroganza, dell’aggressione, del pregiudizio, della prevaricazione del bene personale sul bene comune, della rozzezza, la vera manifestazione tangibile di tanta bravura e intelligenza è l’accanimento.
Ci si accanisce su chi non si può difendere, ci si accanisce sul “foresto”, ci si accanisce sui simboli, ci si accanisce sulla memoria, ci si accanisce sul paesaggio, ci si accanisce sul territorio, ci si accanisce sulla bellezza.
Ciò che ha ancora un senso – un’essenza – viene stuprato senza pietà per mano dell’uomo, perché è solo l’uomo, e non la natura, che infierisce sull’uomo stesso. Ciò che può destare un ricordo, un momento di poesia viene annientato con accanimento.
Ci si dimentica che una città è il luogo delle relazioni, come scriveva Italo Calvino: “non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure e lo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato.”
E il grande cedro abbattuto segnava questa relazione.
Quelle motoseghe che per due giorni consecutivi si sono accanite su un albero di oltre trecentocinquanta anni, indifeso ma fiero, erano come dei fucili che sparavano sulla folla disarmata.
E quelle motoseghe – strumenti messaggeri di paura – non si sono fermate di fronte ai rami mozzati, non hanno cercato un dialogo con nulla; ossessive, indefesse e accecate dalla foga purificatrice, si sono accanite fino alla fine, fino a vincerlo, finalmente, questo albero ingombrante, fino a cancellarne per sempre la memoria, fino a mostrare che questo tronco era sano, che si poteva salvare, fino a mostrare che ciò che conta è solo la voce del padrone, di chi nella transitorietà del mondo, in quel momento, è più forte.
E chi se ne frega se il paesaggio sarà mutato, per sempre, questo paesaggio che era lì da secoli, chi se ne frega se questo provocherà vero dolore a qualcuno, a chi crede che un albero sia una cosa viva. Del resto che male si fa? Si è abbattuto solo un albero, non è stato fatto del male a nessuno.
Quanta ipocrisia in questi pensieri e quanta cattiva educazione, quanta ignoranza, quanta incapacità di capire la grande utilità della bellezza che davvero può trasformare il mondo.
Forse a furia di stare con ballerine e cantastorie si arriva davvero a smarrire il senso della realtà. Tutto diventa vuoto e opaco e questo vuoto lo si vuole trasmettere a tutto il mondo esterno, giusto per lenire un bisogno interno che non si riesce a colmare in altro modo.
Il deserto interiore viene proiettato all’esterno creando una grande tabula rasa che passa attraverso scelte come questa, incomprensibili, orrende e imperdonabili.
Prepariamoci a questo deserto.
Questo è il mondo in cui viviamo e questo è un mondo che mi ostino a non accettare sapendo che non sono solo.