In quei momenti, per quanto non lo ammetteremo mai compassionevolmente, ma abbiamo avuto terrore puro di ciò da cui siamo maggiormente attratti. Magari ci siamo sentiti sedotti e abbandonati dalla montagna, che non ci aveva mai paventato il proprio aspetto più esterrefacente e disagevole. In quella cavernucola in un altro momento ci saremmo addentrati come api che entrano in un alveare per impollinare il miele, invece ora era una prigione a cielo aperto. Per tutto il periodo di eremitismo forzato in cui siam rimasti lì alquanto infreddoliti, nell’incavo dei nostri volti prendeva colore un mosaico di espressioni sinistre. Abbiamo conversato a singhiozzi, le preoccupazioni erano inabissate dal rumore sordo dell’acqua, le emozioni trattenute, i nostri argomenti semiseri, le frasi secche e algide, ci interpellavamo reciprocamente con domande mai banali ma che richiedevano risposte brevi, in mezzo alle conseguenze di quello che ci attendeva, tangibili, e la notte incombente.
Non saprei quantificare le ore trascorse imbambolati psichedelicamente a scrutare la pioggia mefistofelica: prima forte e impetuosa, poi più debole e delicata, poi di nuovo perdurantemente diluviante. Fece sera. Avevamo lucine alogene da campeggio acquistate in uno store cittadino qualche giorno prima di partire, ma che servivano solo a baluginare flebilmente nel buio più totale. Non conoscevamo la nostra posizione perché il navigatore non rintracciava campo di rete e le linee telefoniche risultavano irreperibili data l’altura.
Ci addormentammo snervati ed esausti, convenimmo di dissipare le ultime energie rimaste sdraiandoci con le spalle frigide accoppiate e perpendicolari alla nostra ascissa corporea, addossati alla men peggio. Margaret perse completamente la memoria muscolare della posizione eretta, credo che sia stata abbracciata serratamente da Morfeo e caduta in preda ad un sonno onirico, quasi fosse svenuta. Quando calai le serrande delle palpebre arrugginite, tutto apparve completamente diverso da com’era in realtà, appeso all’elastico della proiezione visiva, una deformata illusione, una millantata armonia. La notte ci inghiottì e ci fagocitò, ingurgitandoci silenziosamente, sputandoci fuori all’alba con una flemma diversa e una percezione vivida della filigrana inafferrabile che ci scorreva dinanzi.
In quelle 5-6 ore sedati dalla stanchezza, il cielo aveva pianto così intensamente, che in una via lattea parallela doveva essere accaduta qualche catastrofe fuori d’inventario per gli esseri umani da avere un motivo valido per disperarsi fragorosamente; persino le montagne avevano lacrimato specchiandosi nelle nubi e il loro struggimento aveva richiamato l’acqua dal cielo creando un’opera mirabile.
L’alba fu una folgore abbagliante, come se un paradiso artistico fosse sceso a lustrare la terra per qualche minuto, un Eden con colori indistinti arricchito di elementi dalle sembianze amorfe, dove tutti i monti parevano così alla portata e rilucenti che la loro esistenza si tingeva d’irreale. L’immagine terrestre più affascinante e stupefacente che avessimo mai visto. Era valsa la pena perdersi nell’oscurità bagnata.
Il percorso a ritroso è stato un silente contrappasso con il paesaggio che ci inondava di sensazioni e figure violentemente espressive, tutte a dimensione naturale, mentre ci temperavamo del clima mite del mattino albeggiante con un primigenio chiarore che magnificava in alto. Gioviali come due boy scout della prima ora, annusammo i profumi essenziali della felce irrorata di linfa nuova, assuefacendoci dell’inebrio di tutte le piante e dei compunti fiorellini di varietà differenti che abitano le distese erbose.
Arrivammo alla base alle 8 e 13, con i vestiti ancora intrisi. Avevo i piedi gelidi, una fame imperiale e in bocca un acquosa amarezza. Vidi per la prima volta il segnale del telefono riacquistare captazione. Lo scenario da apocalisse che si proponeva di fronte a noi era scoraggiante. Fango ovunque, tele bucate e trascinate sugli alberi (quelli non inclinati o con i tronchi caduti), pali e aste divelte o spezzate, corde mozzate, legna sparsa ovunque. Zaini trafugati dal vento, strappati e rovesciati, oggetti sparigliati a vario titolo sul praterello e sul terriccio umido, tra cui la griglia per il barbecue e il carbone. La nostra roba personale smarrita, per sempre.
Una deducibile conseguenza di quello spontaneo pianto notturno del cielo su cui noi due, guardandoci in faccia, adesso ridevamo genuinamente, insieme al sole.