TRA VENEZIA E LE MONTAGNE #1
L’entrata principale del museo è sbarrata già da qualche tempo e alcuni cartelli ormai logori indicano un accesso laterale.
Certe impalcature, forse non del tutto rispettose delle norme di sicurezza, costringono ad abbassare la testa, penso che in fondo sia un giusto esercizio di umiltà per i forestieri come me di fronte alla Serenissima.
Una, due gocce, tre, un giro di vento gelido, la polvere della strada davanti ai miei passi, percossa dai goccioloni, forma delle minuscole bocche di vulcano, simili a quelli scavati dalla capalonga sulla spiaggia di Grado, poi uno scroscio di pioggia pesante, ghiacciata, profeta d’autunno lustra il selciato e batte con violenza sopra i teli di nylon malamente stesi a proteggere le attrezzature del cantiere: un grosso compressore a nafta annerito, una vecchia betoniera elettrica, assi di varia misura e natura e sacchi di cemento, sacchi rimasti così, accatastati sopra il pallet con il quale erano stati scaricati dal burcio.
Gettati con malagrazia in un angolo, sotto la pioggia, senza nemmeno la seppur minima protezione di un pezzo di telo, badili e picconi, museali, incominciano già a marcire. C’è stato un tempo passato in cui a certi utensili era riconosciuta l’anima e allora badile e piccone erano circonfusi di sacralità intangibile, questo prima dell’avvento dei martelli pneumatici e delle mini scavatrici, questo prima che le mani degli uomini diventassero inutili; sono certo che mio padre, vecchio muratore, a vedere quegli attrezzi così allo sfacelo sarebbe corso per metterli al riparo. I pochi veneziani passano via di fretta dal ponte dell’Accademia e spariscono come folletti dentro a chissà quale calle misteriosa, o forse, più prosaicamente, spingono con fatica una porta inarcata dall’umidità della Laguna per poi salire le scale di modeste case operaie. La magica città sembra sghignazzare, mentre si stiracchia con piacere voluttuoso sotto la pioggia rinfrescante, che le scrolla di dosso un po’ di turisti. Come il selvatico, che accoglie con gratitudine l’acqua dal cielo che lo ristora e lo libera dall’assalto dei tafani, così anche Venezia quel mattino allungava pigramente le gambe e cercava una posizione più comoda.
Un museo in restauro è una lezione di anatomia, ti accorgi con stupore che i gangli vitali di una creatura incantevole, osservati troppo da vicino procurano un moto di disgusto e del resto, se la osservi con il dovuto disincanto, l’intera città di Venezia ricorda una lezione di anatomia e procura un malessere del quale non riesci ad aver ragione.
Dietro le facciate splendenti di marmi colorati, le viscere puzzolenti di certi rii ti spiegano senza aver bisogno delle parole l’origine straordinaria della vita.
Le pareti della piccola sala, un’anticamera nulla di più, che da troppo tempo non conoscono una mano di calce hanno preso, con il passare delle stagioni, quel colore grigio freddo di certi giroscale delle case popolari tirate su di fretta alla fine degli anni ’60. A quei muri di cenere, la Tempesta del Zorzi da Castelfranco, el Zorzon, è appesa con svogliata noncuranza quasi fosse uno dei nostri poster di gioventù; il quarto stato di Pelizza da Volpedo o il Che argentino che guarda lontano accanto ai quali qualche amico con aspirazioni intellettuali, a volte vi attaccava anche l’opera di quel misterioso veneto, con le date e il luogo di una lontana mostra d’arte stampati a caratteri giganti che ne deturpavano l’immagine. Più oltre, il salone è troppo lungo, troppo alto, troppo stretto, troppo freddo, troppo illuminato, è sgraziato e privo di armonia, diviso in due per tutta la sua lunghezza da una fila di poltroncine in vinile e ferro zincato che, scrostandosi, arrugginisce in fretta. Sono poltroncine senza bellezza alcuna, da sala d’aspetto di una barberia gestita da immigrati cinesi. A cavalcioni di quelle poltroncine, con una gamba di qua e l’altra di là, la ragazza potrà avere diciotto anni, forse meno, di sicuro non può averne di più; ha i capelli quasi rossi, tenuti assieme in una coda improvvisata, la faccia pulita e gli occhi truccati appena da un sottile velo di sfrontatezza infantile che le danno un’aria da Maddalena di montagna mai pentitasi di nulla. È vestita ancora d’estate e di aria chiara, la ragazza, porta una canottiera stropicciata e un paio di pantaloni di jeans corti corti come solo prima dei vent’anni si possono indossare senza apparire ridicoli. Ha le gambe nude e robuste, da atleta; da cervo scriverebbe forse un poeta in astinenza di capacità creativa, lo stesso poeta, che indugerebbe sul seno, come si dice: in fiore. Una donna il giorno prima di essere donna, una bambina il giorno dopo aver smesso di esserlo.
La ragazza gira ritmicamente la testa, ora da un lato della sala ora dall’altro, come uno spettatore di tennis.
Il vecchio, invece, con il Borsalino di feltro sformato, appoggiato di sghimbescio sulla testa nuda, sembra non vedere altro che l’opera estrema del pittore a lui più caro, la deposizione di Cristo di Tiziano Vecellio. Da sempre il vecchio porta una venerazione esaltata per quell’enorme telero, considera quella pietà livida, il rovescio scuro di quell’altra, brillante e purissima, scolpita da Michelangelo Buonarroti.
Non c’è sorveglianza in quella specie di granaio, nessuno che si prenda cura di tanta bellezza e il vecchio, come trascinato da una forza alla quale non riesce a opporre resistenza, di centimetro in centimetro si fa sempre più vicino alla pala, sino a sfiorarla, solo allora sente sibilare all’orecchio quella voce roca e strana:
«Che fai nonno, vuoi che scatti l’allarme?». Come un bambino sorpreso a fare le brutte cose, il vecchio avvampa, le orecchie gli si fanno di fuoco e con un unico lungo passo all’indietro si allontana dall’opera di quasi due metri, mentre confusamente balbetta delle scuse.
«Non devi scusarti con me, sai, non sono mica del museo, io, e poi so bene come ci si sente davanti a un quadro che si ama, ti viene la voglia fortissima di toccarlo, di sentirne il colore, il ruvido a contatto con le dita, a me capita sempre così; piacere mi chiamo Clio. No, non aggiungere anche tu come l’automobile, per favore». Il vecchio adesso sorride, sollevato da quella naturale confidenza che solo i giovani sanno dare senza riserbo e senza rispetto.
«No, Clio come la musa della Storia, figlia di Zeus e Mnemosine, oppure come la moglie di un nostro Presidente della Repubblica, beh, io invece sono Pietro».
Clio stringe con forza inconsueta quella mano offerta, mano di pelle dura, mano da contadino dal colore incerto come la corteccia del larice, poi caracollando con indolenza se ne torna verso le poltroncine grigie e un attimo dopo è come se non si fosse mai mossa, le gambe, una di qua e una di là e una insolita concentrazione sul volto. Il vecchio si avvia lento verso l’uscita della sala, dedicando solo un’occhiata distratta ai capolavori trionfanti del Tintoretto, appesi sulla parete opposta al suo Tiziano, forse pensa che non sia nemmeno giusto contrapporre l’opera dolorosa del cadorino a quei teleri squillanti di colori e di gesti e di suoni.
«Toppa arte, l’Italia ha troppa arte, senza sapersela meritare; in qualsiasi paese del mondo, attorno ad ognuno di questi quadri costruirebbero un museo appositamente, in Italia li accatastiamo dentro ai granai». Pur confusamente riesco a sentire le sue parole e leggo nelle spalle curve la sua amarezza, poi il vecchio raddrizza la schiena e si avvia.
Lo guardo allontanarsi quasi solenne.