testo e foto di Francesca Nemi
Trentotto gradi, un’aria dorata ed effervescente. Sotto il sole infocato emanava un muscoso odor di femmina. Era realmente il mio amore infantile, un versante ripido e assolato, costellato da balze rocciose di calcare compatto, e una mitica fenditura ad aspettarmi che non avevo mai visto così da vicino, coperta com’era da un sottile strato di verde eccitazione.
Avrei voluto affondare il naso in quell’umido tappeto di gigli che la ricoprivano, ed emettere suoni strozzati di scoperta e gioia. Non c’erano dubbi: il calore irradiò da lei quasi immediatamente una vibrazione, una di quelle pronte e palpabili sensazioni di rapporto che si hanno raramente nella vita. Stavolta non c’erano incertezze, avrei vissuto le battaglie e le gioie di una difficile conquista, e tra qualche ora, con la stessa ineluttabilità con la quale l’autunno genera foglie rosseggianti, la folle gioia di quel corpo roccioso di femmina sotto il mio sguardo mi avrebbe sopraffatta.
In maniera pacata ed esplorativa, tutte quelle esperienze fisiche che, fino a qualche anno fa esistevano solo nella mia mente come una vasta e troppo sfogliata enciclopedia dell’avventura (*), le avrei assaporate. Erano confusi preliminari, un insieme di tattiche e timori in quelle lunghe pareti fuse che fluivano tra lance appuntite di quel bastione di roccia crestato. E agitavo piedi e mani procedendo, infine, verso le regioni misteriose, splendente di sudore e colma di piacere.
C’è più sensualità in un fiore di centaurea che in tutte le rosee piante chiuse sotto un vetro
Pura essenza del desiderio, la sua salda e nuda roccia era per me un’accesso di passione – o semplicemente il mio impressionabile cervello all’età di trent’anni. Soggiogata da un senso di imminente godimento, di promessa quasi raggiunta, ero in bilico tra l’estasi e la frettolosa voglia di placare il mio sentimento di vetta. Nuvole simili a chiazze cremose avanzavano serene gettando macchie di luce e ombra sul residuo tragitto. Come il mezzogiorno che si avvicina nel giorno che cammina, con raffinato languore, la mia gioia traboccò, e si trasformò in un rivolo che inondava con il suo sguardo tutti gli spazi carnali di quella vetta al mezzodì.
In un’ordinata progressione fin verso l’apice del piacere
L’enorme quantità di energia che avevo immagazzinato e la sua invasione nelle mie fantasie avevano, ora, persino il potere di spingermi oltre a cercare una qualche altra irraggiungibile meta. Avevo stabilito tempi e ritmi della mia ascesa, consentendo in tal modo che gli eventi marciassero in un’ordinata progressione fin verso l’apice. Per aumentare il piacere ero stata dunque più che disposta ad aver pazienza, e ad attendere l’arrivo alla seducente signora che si trasformò d’un tratto in un gradevole ghiacciolo. Mi ravvivò lo spirito godere di un puro amalgama di felicità fisica e spirituale.
Restai in silenzio a contemplare gli spazi. Una vertiginosa velocità di turbolenti emozioni.
Questo tempo assunse la forma della roccia scoscesa sulla quale ero ovviamente, infine, approdata. Gettato alle spalle il dolce preludio alla vetta, il nuovo apice del piacere fu volgere le passioni a quella splendente visione di rilucenti ghiaioni e valli inebrianti.
(*) L’espressione “esistevano solo nella mia mente come una vasta e troppo sfogliata enciclopedia” è di William Styron
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