Racconto

SOTTO IL BLUEMONE

Siamo ai piedi della parete sud ovest del Cornone di Blumone, lungo l’Alta Via dell’Adamello, zona aspra e pietrosa, piena di fascino e di storia di sacrifici e dolore.

testo di Chiara Pezzoni, foto di Dario Bonzi

11/09/2021
3 min
In questa camera dormono tutti, Luigi accanto a me, altre due coppie nei loro lettoni a castello.

Al percorso che porta al rifugio con un dislivello modesto abbiamo aggiunto un lungo tratto iniziale, partendo più in basso, perché nei giorni scorsi il cattivo tempo ha abbattuto degli alberi sulla strada che al momento non è transitabile. Non ho ancora sonno, nonostante i 19 chilometri sotto i piedi, ma hanno chiesto di spegnere la luce, «Sì, certo!» – ho risposto e da lì buio pesto.

Ritagliata nell’angolo sinistro della parete davanti al letto, una finestra, con le persiane lasciate aperte, mi permette di intravedere una striscia della roccia grigia scura del Blumone, di granito adamellino. La bella luna quasi piena che c’è stasera ha ricoperto di luminosità soffusa l’erba e le rocce, la diga e l’acqua del lago, la sagoma di vacca del roccione che, poco distante, accoglie i camminatori in arrivo. Il rifugio è dedicato alla memoria del partigiano e alpinista Tita Secchi che – ricorda la targa affissa all’ingresso – venne imprigionato e poi fucilato nel ’44 insieme ai suoi compagni, dopo aver rinunciato alla concessione di salvarsi da solo.

Siamo ai piedi della parete sud ovest del Cornone di Blumone, lungo l’Alta Via dell’Adamello, zona aspra e pietrosa, piena di fascino e di storia di sacrifici e dolore. Già salendo lungo quella che si chiama Valfredda, a tratti siamo stati investiti da raffiche di un vento freddo più di quanto ci si aspetterebbe in un sabato di metà luglio. Ed ora che sono in questo letto spazioso, la schiena leggermente sollevata e appoggiata alla testata in legno, il resto del corpo imbozzolato nel sacco lenzuolo, si sente ancora fuori la potenza del vento, il suo arrivare e piegare ciò che incontra.

Sulla porzione di tetto sopra le nostre teste le sferzate muovono qualcosa di greve che produce un rumore cupo, di ferraglia pesante spostata da una forza cui oppone resistenza. E immagino non sia altro che la pala eolica, spenta ormai dall’ora di cena, che per tutto il pomeriggio fendeva l’aria con tagli netti. Ma nell’oscurità calda e vellutata la stanza è una nave nella burrasca, dalla carena l’urlo sinistro e io, da dentro la sua pancia, resto in ascolto. Per pochi minuti, poi svanisce di colpo: nella sala da pranzo hanno cominciato a cantare. Distinguo tre voci maschili che si accompagnano con una chitarra, le mani battono forte il ritmo sui tavoli e fanno risuonare l’intero soffitto; una dopo l’altra intonano le canzoni di Vasco più amate, che parlano delle emozioni che riconosciamo.

La sera scorre così per un po’ e penso sia perfetta, con le note malinconiche che si diffondono nell’aria e vanno ad adagiarsi poco lontano sui ruderi della seconda linea di difesa costruita dai soldati italiani durante la Grande Guerra. Gli ultimi suoni mi giungono smorzati, quando la musica finisce; arriva il sonno in punta di piedi a chiudermi le palpebre stanche, il respiro ora rallenta. Nel silenzio quasi assoluto solo il ruggito della pala eolica colpita ancora di tanto in tanto dal vento, che va calando.

Chiara Pezzoni

Scrivere è dare un po' di sé agli altri e fare anche i conti con te stesso, ti porta a guardar fuori e guardar dentro.


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