QUEL BISONTE DI ERBA SECCA
Ho conosciuto solo marginalmente da bambino, il mondo che cerco di raccontare in questo libro, marginalmente perché ero troppo piccolo per affrontare le fatiche degli adulti ma abbastanza grande per assistervi. Nella mente di un bambino di sei-sette anni restano soltanto momenti, pochi fotogrammi che raccontano un intero episodio; come una giornata di lavoro degli adulti sulle sort e io relegato su un piccolo spiazzo, davanti al cogol, con la proibizione di allontanarmi perché potevo cadere giù per le crode.
Non vedevo il loro lavorare, li sentivo soltanto parlare, a volte vicini, a volte lontani, una voce di tanto in tanto mi chiamava per controllare se stavo sempre sul mio spiazzo.
L’impressione di vedere il fieno, che scivolava silenzioso giù per un canalino per poi arrestarsi contro un palo conficcato lì per l’occasione, magari i pali erano due o tre, poco importa, perché la mia attenzione era tutta concentrata sul precipizio che si apriva poco oltre, dove immaginavo sarebbe caduto quel bisonte di erba secca.
L’impressione di vedere quell’uomo in cima alla meda che stava allestendo, ma la meda stava a sua volta su un breve terrazzino grande come una stanza, a strapiombo sul nulla, e io sempre sul mio piccolo spiazzo a osservare.
Poi, qualche tempo dopo, quando avevo guadagnato il permesso di muovermi nei dintorni, scoprivo la presenza di altra gente intenta fare le medesime cose, sulle crode lì intorno.
Da adulto mi sono spesso interrogato sulle ragioni che avevano condotto quelle genti a correre tanti rischi, fino a quando ho preteso di trovare una spiegazione vera, perché non mi bastava la risposta: — Bisognava ! — altrimenti il fieno non sarebbe bastato per alimentare le bestie della stalla durante l’inverno.
Questo breve lavoro racconta una pratica di fienagione ormai dimenticata, descrivendone le ragioni attraverso una documentazione che, pur nei limiti che mi sono imposto, vuol essere rigorosa.
Antonio Tatto