A fine settembre mi trasferii in Inghilterra. L’idea era di studiare nella terra di Albione per tre anni, ma io non avevo la testa nemmeno per tre giorni.
Ero confusa, totalmente confusa. Il mio sguardo era proiettato verso l’alto, verso le montagne e facevo molta fatica ad abbassare lo sguardo sui libri ed ignorare la natura. Così, appena ne avevo l’occasione, prendevo il primo treno e andavo a scoprire l’affascinante zona dei Lakes.
Un giorno fra tanti mi avventurai sull’Helvellyn, una delle cime più alte e arzigogolate della zona. Alte per così dire: per una, come me, nata ai piedi delle Alpi, i rilievi inglesi sono graziosi muffin vegetali, imparagonabili agli appetitosi panettoni alpini, sempre decorati da una spruzzata dolce di zucchero di neve. Il tempo atmosferico era un secondo termine di paragone che non aveva chance di vittoria per l’Inghilterra: in autunno, la nebbia permea l’aria quanto un peterpanesco Spugna impregnato di alcool e l’umidità diviene più palpabile e consistente delle caramelle morbide che tengo in tasca quando vado a camminare.
Questo, insomma, era lo scenario tattile della mia gita solitaria sull’Helvellyn. Lo sfondo visivo era un’indefinibile telo bianco davanti ai miei occhi, dato dalla foschia, ed un trasandato ed irregolare tappeto nero come la terra più recondita sotto i miei piedi. Nella mia testa, invece, non c’era nient’altro che un’indecisa, grande chiazza di grigio, una macchia confusa che mi portava a procedere come per inerzia, trascinata dall’inconsistenza dell’aria, perché non mi era chiaro dove volessi arrivare, alla fine del sentiero e alla fine del mio viaggio.
Cercavo tracce di colore sbirciando tra i fogli della nebbia, verso valle. Si vedeva ben poco, ma riuscivo ad intravvedere altri temerari disperati, anche loro in cerca di chiari punti di riferimento, decisamente introvabili lungo sentieri come la cresta dell’Helvellyn. Eravamo tutti quanti immersi in una grande dimensione di confusione. E in circostanze come questa, sono molto pochi coloro che riescono a trovare una via d’uscita dal limbo in cui sguazzano, spesso pure inconsciamente.
Sentivo il bisogno del nero, della certezza, di un qualcosa che non fosse timido, incerto, sbiadito. Per questo, camminavo con la testa inchinata ai piedi, procedendo tranquilla perché fiduciosa nelle poche ma decise impronte che mi aprivano la strada. Procedetti così per dieci chilometri, fin quando, incrociato lo schizzo azzurro del laghetto Red Tarn, capii che stavo facendo ciò che avevo sempre voluto evitare di fare: affrontare i cammini e la vita con lo sguardo abbassato. Gli occhi e le gambe, fino a quel momento, mi avevano guidata verso il buio, verso l’abisso, verso la limitatezza del mio sguardo. Io, però, non volevo, né voglio, procedere verso il nero della limitatezza.
Allora alzai nuovamente gli occhi e cercai il bianco, il colore per eccellenza della chiarezza. E fu in quel momento che realizzai il perché di quel suo epiteto.
Capii che il bianco è lo sprigionarsi più potente della luce, che rende luminoso ogni anfratto di universo, dal fiore che rifugge l’ombra, alla stella che nemmeno conosciamo.
Capii che il bianco è il colore più vivo perché ha in sé tutti i colori: il calore del giallo, la tranquillità del verde, l’ardore del rosso, la passionalità del viola, la profondità del blu.
Capii perché lungo la camminata non avevo visto alcuna traccia di grigio: questo è il colore del compromesso ed io nella vita di compromessi non ne voglio.
Così, uscita dalla dimensione di confusione, presi la mia decisione.
Tornare in Italia era la soluzione, tornare nel paese dei colori, e abbandonare il sentiero del buio e del grigiore. Sul treno del ritorno, fui pronta a comunicare tutto quanto a mio padre. Riaccesi il telefono e, mentre le pagine di nebbia si chiudevano su loro stesse alle mie spalle e mi mostravano avanti un libro nuovo, gli dissi: “Senti, ero nero; ora sarò il cerchio cromatico in-tero”.