Ci sono due cose vitali che bisognerebbe fare: scrivere ed esplorare una valle sconosciuta.
Per me funziona così; se non le facessi non potrei mai affrontare il resto: sopravvivere, avere amici, fare bene un lavoro, essere gentile e responsabile, accettare e, di conseguenza, offrire sostegno.
Le due cose a prima vista sembrano opposte; scrivere è attività sedentaria, esplorare è impegno nomade, è stare in movimento. Hanno però in comune la solitudine, almeno quella fa compagnia in partenza. Dopo, tutto può cambiare.
Le due attività hanno anche altre cose che le accomunano, fino a renderle persino simili. Il gusto dell’avventura, il timore quando si parte, l’intimo brivido di piacere quando si arriva, la consapevolezza necessaria.
In entrambi i casi si affrontano sentieri neri. Perché prima di avventurarsi in una narrazione o in un posto sconosciuto si sa solo da dove si parte e s’immagina una direzione. Ma tutto finisce lì.
Perché poi il percorso letterario e pedestre verso una meta immaginata, nonostante “l’attrezzatura” e la determinazione, sempre si ingarbuglia, si annoda, si sbroglia, si nasconde, si perde e si ritrova, offre deviazioni prive di segnali e per questo semina incertezze.
Nel procedere a tratti esitanti, facilmente si faranno cambiamenti, muteranno le aspettative e i pensieri, si incontreranno persone e idee diverse, di quelle che non ci si aspettava proprio.
Però arriveremo “dall’altra parte”, della scrittura o della valle, diversi da come eravamo partiti. Migliori, probabilmente.
Vicende e luoghi vanno attraversati in senso orizzontale, in profondità. Scegliendo i sentieri neri.
Grandi opere narrative portate a compimento o cime duramente conquistate sono roba d’altri tempi. Scrivere e camminare servono per scovare storie da raccontare. Semplicemente.