Recensione

PALINODÌA ALLA STORIA DELL’ALPINISMO

È possibile ritrattare la storia dell’alpinismo e riscriverne una nuova? Nel saggio “Controstoria dell’alpinismo” appena pubblicato da Laterza, Andrea Zannini prova a farlo raddrizzando il torto perpetrato a chi ha inventato l’alpinismo: gli abitanti delle Alpi.

Recensione di Ledo Stefanini

Bollettino del Club Alpino Italiano (1870-1871, n. 18, vol. V)
29/02/2024
6 min
Esce, proprio in questi giorni, un’opera di Andrea Zannini, destinata a creare qualche scompiglio nella repubblica degli storici, ma non in quella degli alpinisti, tetragoni come sono a porsi domande sul significato e le ragioni sociali della loro attività.

La «Controstoria dell’alpinismo» edita da Laterza in collaborazione con il CAI, ha l’ambizione di “riscrivere dalle basi la storia dell’alpinismo” in una nuova interpretazione per la quale “tutti i suoi eventi fondatori assumono una luce completamente diversa”. Per “eventi fondatori” l’Autore[1] intende le salite che furono compiute da persone che raggiunsero vette più o meno famose, senza sapere di compiere imprese alpinistiche. Fra questi, Francesco Petrarca che, nel 1335, raggiunse la cima del Mont Ventoux, in compagnia del fratello e di due servitori. Ne lasciò un’accurata descrizione in una lettera che si studia a scuola come la più celebre delle Epistolae del grande poeta, e che servì nel 1886 all’ allora presidente del CAI Paolo Lioy per indicarlo come inventore dell’alpinismo. Il titolo del capitolo dedicato all’uso “politico” del Petrarca (La nascita dell’alpinismo riscritta) rappresenta la sintesi della tesi sostenuta dall’Autore: che l’assunto convenzionale dell’illuminismo come radice culturale dell’alpinismo sia un falso storico.

Intendiamoci: Andrea Zannini ha tutti i titoli per sostenere la sua tesi, sia come storico di riconosciuto prestigio, che come alpinista dall’invidiabile curriculum. Basterà ricordare che, insieme al compianto Fabio Favaretto, curò la «Guida del Gruppo del Sella», pubblicata dal CAI nel 1991. Da storico serio e scrupoloso, Zannini ricostruisce la storia di decine di salite compiute tra il Sei e l’Ottocento da cacciatori, cercatori di cristalli, garzoni di monasteri, notabili di villaggi e religiosi, imprese tradizionalmente ignorate nelle storie dell’alpinismo e che, al contrario, ne spostano l’invenzione nel tempo e nello spazio. Si tratta di un sasso lanciato in uno stagno di convinzioni storiche ritenute assodate e condivise che, raggiunge il bersaglio solo se suscita anche reazioni contrarie.

Alle perplessità che lo stesso Autore si augura verranno suscitate dal suo lavoro, aggiungo le mie di storico dell’alpinismo “conservatore”, posto che il termine abbia senso.

Un riferimento bibliografico obbligato è una raccolta di scritti curata da uno dei massimi filosofi inglesi del secolo scorso, Antony Kenny: «Mountains, an anthology», uscita a Londra nel 1991. L’opera prende in esame il rapporto fra l’uomo e la montagna dalla celebrazione dell’Olimpo di Omero alla scalata di Hillary e Tenzing del 1953, scansando, tuttavia, il problema di assegnare una data di nascita e una paternità a quel fenomeno culturale che va sotto il nome di “alpinismo”. E qui siamo al nocciolo del problema: se sia legittimo dare il nome di alpinismo alla lunga e inevitabile storia del rapporto tra gli uomini e le montagne.

Andrea Zannini

L’Ankogel, 3252 m negli Alti Tauri, salito nel 1762 da un contadino del luogo, la cui salita è stata chiamata “La culla dell’alpinismo” in questo angolo alpino.

Il Corno Grande (Gran Sasso) 2912 m, salito nel 1573 da Francesco De Marchi e prima di questa data da Francesco di Domenico che lo accompagnò in vetta.

Il benedettino Placidus Spescha (1752-1833), un alpinista completo di fine Settecento.

Si tratta di un sasso lanciato in uno stagno di convinzioni storiche ritenute assodate e condivise che, raggiunge il bersaglio solo se suscita anche reazioni contrarie.

Col termine “alpinismo” si suole indicare un fenomeno culturale che ha origine nell’Inghilterra vittoriana e a cui concorsero diverse componenti, non tutte adeguatamente individuate, e che rapidamente si estese fra i ceti acculturati e le classi benestanti di mezza Europa.

Una rivoluzione culturale alla quale non è estranea la diffusione dei sanatori nei quali si cercava di combattere il male del secolo: la tubercolosi. Quando nel 1865 Edward Whymper riesce nella sua maggiore impresa di scalare il Cervino, l’alpinismo è già una realtà. Ne sono testimonianza le pagine che John Ruskin dedica in «Sesame and Lilies», pubblicato nello stesso anno, al turismo sulle Alpi Svizzere. Già allora il grande storico dell’arte accusa gli alpinisti di aver trasformato le “cattedrali della terra” in “pali saponati”. Il famoso disegno di Whymper che rappresenta un gruppo di alpinisti inglesi davanti all’Hotel Monte Rosa, al centro del quale si trova Alfred Wills, al tempo presidente del Club, è del 1864, sette anni dopo la sua fondazione. Significa che la scissione fra “mountainers” e “mountain lovers”, come li definisce Arnolod Lunn, nel suo fondamentale saggio «The Alps» (1914), si era già consumata da tempo.

Significa che la nascita dei club alpini in vari Paesi europei fu, inizialmente, effetto della diffusione di una cultura della montagna. Questo non implica che, in seguito, le associazioni alpinistiche non abbiano avuto un ruolo rilevante nella ulteriore diffusione di una realtà culturale che andava sotto il nome di “alpinismo”. Né significa che alla formazione e diffusione di una cultura alpinistica non abbiano contribuito anche le condizioni politiche. L’Inghilterra della regina Vittoria è la potenza egemone in Europa e nel mondo, non solo perché titolare di un impero coloniale che non ebbe eguali nella storia; ma anche perché era il Paese leader nel campo dell’industrializzazione e della ricerca scientifica.

Non vi è una spiegazione semplice del fenomeno, ma non può non meravigliare il fatto che l’Inghilterra sia il paese nel quale maggiore è lo sviluppo della chimica e della fisica: l’anno della salita di Whymper è anche quello della pubblicazione del saggio di Maxwell che costituisce la base della teoria dell’elettromagnetismo. Può essere dura da accettare, ma con ogni probabilità, alla nascita dell’alpinismo vittoriano non è estranea neppure la diffusione delle ferrovie a vapore.

Se fossi uno storico della cultura arriverei ad affermare che l’alpinismo delle origini era contemporaneamente figlio dell’impulso imperiale e della nostalgia romantica di un mondo ormai sepolto sotto una coltre di polvere di carbone, come denunciava Ruskin.

E il testo di Andrea Zannini?

Lo definirei una lettura obbligatoria per gli amanti, a vario titolo, dei monti, ma che va accompagnata, come certi farmaci, da altre letture sulla storia dell’alpinismo. Due testi rivestono una particolare importanza: Alessandro Pastore, «Alpinismo e storia d’Italia dall’unità alla resistenza» (Il Mulino, 2003), e la monumentale «Storia dell’alpinismo», curata da Alessandro Gogna, recentemente pubblicata dal Corriere della Sera.

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Andrea Zannini insegna Storia dell’Europa all’Università di Udine. Si è interessato di storia economica e sociale della Serenissima, storia dell’emigrazione, storia della Resistenza. Alpinista, ha curato nel 1991 assieme a Fabio Favaretto la guida Gruppo di Sella, della collana CAI-TCI Monti d’Italia. Le sue ultime pubblicazioni sono: L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi (Marsilio 2022) e Altri Pigafetta. Relazioni e testi sul viaggio di Magellano ed Elcano (Viella 2023).

Controstoria dell’alpinismo

Autore: Andrea Zannini
Editore:  Editori Laterza, 2024
Pagine: 208
Prezzo di copertina: € 18,00

Laterza

Ledo Stefanini

Ledo Stefanini

Docente di fisica all'Università di Pavia (sede di Mantova), studioso di storia dell'alpinismo.


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