“Non assomigliano veramente a torri, non a castelli né a chiese in rovina, ma solo a se stesse, così come sono, con le frane bianche, le fessure, le cenge ghiaiose, gli spigoli senza fine a strapiombo piegati fuori nel vuoto”.
(da “Bàrnabo delle montagne” di Dino Buzzati)
Solo quando fu ora mi accorsi di lei, immediatamente. Diversa da tutte. Pareva camminasse a mezz’aria, ma non passava inosservata nemmeno agli occhi di chi non la guardava. Bella da morire, da morire come solo le anime belle ti costringono a fare. Era vita, fuoco che corre, cielo, sole che brucia, urla di vento che rischiara e risata di gola.
La incontrai la prima volta ferma a pensare alla sponda del lago. L’autunno nasceva allora da sotto le foglie. Ci parlammo appena: non mi fidavo di lei e tenni le distanze, con prudenza.
Ben presto la rividi: sapeva che non avrei esitato a tornare. Lo feci di corsa quel giorno, in solitudine, lontano più che potevo da quel letto dove mio padre si stava spegnendo.
“Poco” (quanto poco?).
“Poco” (ma poco quanto?).
“Settimane”.
Mio figlio fissò le mani infilate nelle tasche del camice bianco, poi attraversò lentamente il corridoio della sala d’aspetto, si appoggiò alla colonna e pianse profondamente, ma per poco. È sempre troppo poco il tempo per dirsi addio.
Non tardò ad arrivare la fine, e con essa il profumo di pino che fu la sua ultima culla.
Non avevo mai visto la morte così da vicino. Era odiosa, inguardabile, puzzava di alcol, ma anche dei funghi che gli lasciavamo odorosi di bosco sul suo comodino.