Saggio

L’ALPINISMO DI FRANCO MIOTTO

testo di Ledo Stefanini

10/10/2020
2 min
Franco Miotto è morto. I giornali scrivono che cominciò ad andare sul sesto che aveva i capelli bianchi; ma non è vero: cominciò a praticare la versione ortodossa dell’alpinismo; quella che si misura con la scala Welzenbach.

Ma anche dell’alpinismo canonico diede un’interpretazione personale, affrontando pareti nascoste su monti che non si sono mai sentiti, che richiedono approcci di giornate intere e bivacchi e discese infinite che rompono le gambe. Da queste esperienze sono scaturiti i viàz, percorsi alpinistici che seguono le tracce dei camosci: “Tu che sei abituato ad andare per i sentieri segnati, lascia perdere: non sono per te”.

La parabola alpinistica di Franco Miotto è temporalmente coincidente con il “Nuovo Mattino” e con quella dei fratelli Messner; ma se ne differenzia radicalmente. Le “prime” di alta difficoltà di Miotto risalgono infatti ai primi degli anni ’70, quando si diffondeva in Europa la nuova poetica californiana di un alpinismo fortemente connotato dalla tecnica dell’arrampicata libera, che aveva il suo simbolo nelle mai viste “varappes” e nell’imbrago basso. Molti applicarono il nuovo verbo alla ripetizione in libera di itinerari classici aperti in artificiale, altri, come i fratelli Messner, si diedero alla ripetizione in solitaria di itinerari giudicati estremi (il diedro Phillip-Flamm in Civetta, la Soldà al Sassolungo, ecc.) e alla rilettura di pareti classiche come la Sud della Marmolada, la Nord della Cima della Madonna, la Ovest del Sass d’la Crus. Molto diversa fu la ricerca alpinistica di Franco Miotto che lo portò all’esplorazione di luoghi delle Dolomiti ignorati dalla pubblicistica, come il Nason, il Burel, lo Spiz di Lagunaz e il Pizzocco. Gigantesche pareti che alle estreme difficoltà uniscono l’isolamento e le problematiche connesse all’approccio e persino alla discesa e al ritorno.

Le sue vie al Burél del ’77 e del ’80 non sono una declinazione del californiano Nuovo Mattino; ma piuttosto l’espressione di un diverso modo di interpretare l’essenza dell’alpinismo su roccia e il rapporto intimo con l’ambiente alpino. Che non terminò negli anni ’80 con le ultime vie di alta difficoltà tecnica; ma continuò fino all’ultimo con la concezione dei viàz, percorsi che congiungono le zone di raduno dei camosci, tracciati negli anni della caccia. Sicuramente non sentieri da consigliare agli escursionisti; in quanto richiedono alte capacità di orientamento e di sapersi muovere su terreni malsicuri e lontani da qualsiasi possibilità di interventi di soccorso.

In tempi in cui si progetta di realizzare sentieri sui quali i turisti vengono monitorati con continuità, il viàz dei camorz (per citarne uno) sul Monte Coro rappresenta una proposta culturalmente radicalmente alternativa ad una cultura della montagna che appare ormai (purtroppo) definitivamente pervasiva.
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Per saperne di più su Franco Miotto alpinista:
https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Miotto

Ledo Stefanini

Docente di fisica all'Università di Pavia (sede di Mantova), studioso di storia dell'alpinismo.


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