Sono molti i libri che raccontano, anche in modi diversi, la montagna come qualcosa di magico, salvifico, lenitivo. Come se la montagna e la sua gente abbiamo un potere miracoloso e potente capace di trasformare, in meglio, qualunque persona. Come se Lourdes abbia abbandonato i Pirenei e si fosse replicata in un sacco di valli alpine. Forse, le montagne sacre ci sono. Ma anche no.[i]
Certamente le montagne valdostane di “Luce rubata al giorno” edizioni Bompiani, eccellente prova d’esordio candidata al Premio Strega 2019 del torinese Emanuele Altissimo, non lo sono. Non salvano Diego, non salvano Olmo, non salvano Nives, non lo zoppo Ico, nemmeno Aime, non hanno salvato i genitori dei due fratelli protagonisti, non salvano nessuno, come in un romanzo di Charles Ramuz [ii] la montagna è distante, disinteressata, ingiusta e cupa.
“qualcuno mi grida nella testa” disse a bassa voce “lo sento prima di dormire, ma mi capita anche di giorno. Allora passeggio nei boschi, dove c’è silenzio. Capisci cosa voglio dire?” Scossi la testa. “Pensi sia matto” mormorò.
Diego, 21 anni e Olmo, 13, lasciano la città e un grande lutto per salire con il nonno, Aime, a Gros Pin un paese come tanti in Valle d’Aosta, sul confine con la Francia, che il sindaco fece luogo ideale per i turisti con funivie, piste da sci, impianti sportivi con campi da tennis e persino una colonia. Aime ci spera, ma la montagna non allontanerà Diego dal pozzo in cui sta sempre più velocemente cadendo.
E così con i tre protagonisti entriamo nel residence Everest con tanto di cancello e custode per condividere una storia delicata che parla di diversità e malattie impossibili da accettare in comunità che sono, già loro, fragili e sfilacciate. Una scrittura asciutta è quella di Altissimo, che gioca tutto in un basso continuo dove, anche le pagine più dure, sono scritte per stare lì, una accanto all’altra ed accompagnarci verso qualcosa di prevedibile, che sappiamo ineludibile ma che non vogliamo accada. In Luce rubata al giorno c’è l’amore per chi ti sta vicino e cresce con te: amore che porta però dolore e incomprensione, abbandono, distruzione e poi, di nuovo, amore. Diverso ma irrinunciabile.
L’autore fa parlare Olmo, ormai adulto, che ricorda quell’estate di tanti anni prima. Allora, da piccolo, aveva voluto fortemente frenare la caduta di suo fratello negli strapiombi della mente ma Diego era già perso.
Lui scoppiò in una risata che si propagò lungo la corda ma poi tornò serio. “Pensavo l’avessi capito” Scosse la testa. “Adesso tuo padre sono io”. E lasciò andare la corda.
Tutto nel libro di Altissimo è separato da noi da un vetro grigio che rende inquietante –e più irreali- i quadri che ci vengono mostrati: lo chalet, il bosco, la colonia, la segheria incendiata, il circo. I protagonisti sono come immagini in 3d guardate senza occhialini. Sono lì, hanno contorni ma fatichiamo a distinguerli e appena credi di avercela fatta ci appaiono diversamente.
Trovammo un ragazzino che sparava con un fucile a piombini. Era magro, con un cappellino e una cascata di capelli neri che ogni volta spostava per prendere la mira. Accanto a lui c’era un cane, un grosso pastore che ci corse incontro con la lingua a penzoloni.
Ci sono montagne che trasformano malati incurabili in sani camminatori, grigiastri depressi in allegri montanari. Montagne fatte apposta per donne sull’orlo di una crisi di nervi che, in poco tempo (non più di cento pagine) diventano rubiconde contadine. Montagne piene di gente accogliente e accomodante, buoni selvaggi disposti ad aprire la propria capanna per far accomodare il cittadino con la barbetta curata. E poi ci sono quelle che invece no.
Il libro va avanti a piccoli balzi, scosse leggere che però fanno cadere ogni cosa non fortemente fissata alla vita. E nulla può esserlo. Occorre essere costruiti con una ingegneria precisa, come l’Empire State Building che nel luglio del ’45 resistette all’urto di un Bomber B-25 che, nel romanzo, diventa un scelta calibrata e utile per attutire il rullo assordante del dolore delle storie di Luce Rubata al Giorno. Forse, ma solo forse, è questa la parte più fuori posto del libro (oh, resta comunque un romanzo perfetto), in quanto il racconto dell’impatto è fin troppo didascalico e risulta completamente diverso dallo scrivere-togliendo-il-più-possibile delle altre duecento e più pagine.
E sarà, invece, un altro grattacielo, l’Empire costruito, pezzo per pezzo da Olmo sul pavimento della casetta nel residence, a cadere rappresentando ancora una volta la fragilità dell’amore per gli altri.
“Cosa fai se qualcuno ti distrugge il modellino?” “E perché dovrebbe farlo?” “La gente è imprevedibile” tagliò corto. “Perciò che fai?”. Ci pensai su. “Lo ricostruirei.” Lui batté le mani, con gli occhi che si allargavano. “Ricominci daccapo” mormorò. “E’ la misura dei sogni, quando siamo disposti ad inseguirli”
Occorre essere ben costruiti anche come lettori perché Altissimo, poco alla volta, ci avvicina e ci fa toccare i personaggi appena prima che si spezzino per la tensione emotiva a cui sono sottoposti. La storia raccontata sembra averci detto –quasi- tutto dall’inizio ma nonostante questo siamo spinti avanti in continuazione nella lettura.
E la montagna? La montagna dove il “sole era un occhio guercio sopra la vastità dei boschi” non ha nulla di magico, la roccia graffia, piove e se nevica, non accende nessun buon sentimento.
Il sentiero terminava in uno spiazzo con i bidoni della spazzatura. A destra, incastonati nel cemento, c’erano i box con le saracinesche arrugginite. M’inoltrai nella boscaglia, facendomi strada attraverso i rami bassi. Non c’era vento e nemmeno la voce di qualche animale.
I montanari non accolgono e non sono disposti a comprendere. Come in una fiaba dei Grimm[iii] i due fratelli si perderanno nei boschi e troveranno solo gente incapace di aiutarli, pronta a trasformare Diego in un lupo cattivo. Lui, Diego, che salverà un cucciolo di daino, un daimon che attraverserà il romanzo come una magica figura, ancora una volta, da fiaba tedesca, ma che non saprà difendersi dalle dicerie e dalla vernice rossa.
In un angolo, legato al piede di una scrivania rovesciata, il cucciolo di daino osservava una ciotola sul pavimento. Aveva un collare rosso, per cani di grossa taglia. Muoveva le zampe tra cocci di vetro. Appena scricchiolavano si ritraeva con spavento.
Diego alla fine non ce la farà ma Oli continuerà a volergli bene, anche dal trentacinquesimo piano del grattacielo, questa volta vero, che ha costruito. Lì, solo lì, e solo per un istante il vetro grigio che l’autore ci ha messo davanti agli occhi, potrà sollevarsi in una chiusura di romanzo tra le più belle mai lette.
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[i] https://www.giornaledibrescia.it/valcamonica/un-tricolore-di-50-metri-l-adamello-%C3%A8-vetta-sacra-alla-patria-1.3286003
[ii] http://www.treccani.it/enciclopedia/charles-ferdinand-ramuz/
[iii] https://www.donzelli.it/libro/9788868433475