Ho lavorato sulle piste dall’alba al tramonto, ma ora, a pochi giorni dal Natale, ho nostalgia di casa e decido di tornare per passare le feste con Titti, la mia ragazza. Non possedendo un’ automobile mi è venuto ovvio pensare: “vado a piedi per il Mezzalama”(1). La guida che dirige il soccorso piste con cui lavoro è appoggiata al bancone del bar. Mi azzardo a chiedere con un sussurro se, secondo lui, è possibile andare il giorno dopo, 23 dicembre, a piedi ad Alagna. Lui mi osserva con uno sguardo stranito, sicuramente non ha capito bene e mi dice: «Non c’è nessun problema: va pure tranquillo».
Così sabato mattino, ancora presto, parto da Testa Grigia verso la Gobba di Rollen. La luce chiara di una giornata freddissima mi accompagna mentre percorro la traversata dei Breithorn e Castore, c’è molta neve e nessuna traccia. Nella parte finale mi aspetta un lungo tratto di ghiaccio vivo: sono senza ramponi e piccozza e con la punta del bastoncino faccio dei piccoli gradini su cui appoggio i miei Lange arancioni da pista. Quasi sulla cresta sommitale uno dei gradini, troppo piccolo non tiene lo scarpone e scivolo fin sotto la crepaccia che taglia in due il Castore. Un po’ di botte e un po’ di paura, respiro forte, aspetto che il cuore smetta di rimbombare nelle orecchie e riparto. Questa volta ce la faccio, arrivo in cima, metto gli sci, taglio il ripidissimo pendio a nord della cima e in un attimo sono al Colle del Felix. Mi sento leggero, felice.
Per non fare tutto il giro del Mezzalama che scende quasi fino al rifugio Sella, scendo per un canalino ripido che mi porta sul ghiacciaio del Lys e in poco tempo al Naso del Lyskamm. Anche questo nell’ultima parte è tutto ghiacciato, una lastra perfetta che affronto cambiando tecnica: salgo con gli sci a scaletta picchiando forte per far sì che la lamina morda un po’ di ghiaccio. Nel picchiare forte mi si apre un attacco, per fortuna non completamente, altrimenti sarei rimasto con uno sci solo su una parete ghiacciata appena sopra il salto di un seracco. Mi abbasso piano e riesco, aprendo la talloniera, a far rientrare lo scarpone nella sua sede.
Questa volta però mi è venuta veramente paura, quindi giro gli sci e scendo dal Naso. Le gambe sembrano avere una propria autonomia e mi spingono verso uno sperone sul versante sud. Tra una cosa e l’altra, le ore si sono consumate e, superate delle roccette abbastanza esposte, raggiungo la cresta avvolto dal crepuscolo. È l’antivigilia di Natale, sono le cinque del pomeriggio e ormai il buio mi impedisce di andare oltre. Decido di passare la notte sulla cresta. Il tempo è bello, arriverà ben domani mattina. Tolgo gli scarponi e infilo i piedi nel sacco, unico riparo, non ho niente da mangiare, niente da bere e niente per coprirmi. Dopo non so quante ore, è difficile contarle in quelle situazioni, il tempo cambia, si mette a nevicare con un vento fortissimo, cerco di ripararmi in qualche modo e aspetto che torni la luce del mattino.
Dopo non so quante ore, è difficile contarle in quelle situazioni, il tempo cambia, si mette a nevicare con un vento fortissimo, cerco di ripararmi in qualche modo e aspetto che torni la luce del mattino.
Mi rimetto con molta fatica gli scarponi gelati e nella tormenta mi avvio alla ricerca di una via di discesa. Trovo la cresta che fa da sponda al ghiacciaio del Lys e arrampicando in discesa cerco di raggiungere il ghiacciaio, è la mia unica possibilità: tutto intorno ho solo ghiaccio vivo e assolutamente zero visibilità. Qui è solo la sopravvivenza che decide, nessun ragionamento, nessun calcolo, solo il cercare di scendere. Vado avanti passo dopo passo fino ad incrociare uno stretto canale di neve, mi rimetto gli sci e raggiungo il labirinto di crepacci e seracchi del ghiacciaio. Urto contro crostoni di ghiaccio e cado violentemente in avanti. Come un automa mi rimetto in piedi, mi pulisco la faccia, risistemo gli sci e proseguo. Dopo diverse altre cadute mi siedo, vorrei riposarmi un poco, un breve sonno per poi riprendere. Ma la promessa fatta alla Titti mi dà la forza di alzarmi e di continuare. Se veramente mi fossi addormentato non mi sarei più svegliato. Ad un certo punto non riesco più a vedere niente, non capisco cosa mi succede, forse sono diventato cieco. Mi appoggio sui bastoncini, respiro con affanno: è il ghiaccio formato sulle ciglia che con il suo peso mi chiude gli occhi.
Vado avanti così per tutto il giorno, poi all’imbrunire, trovo finalmente la via per uscire fuori dal ghiacciaio, a metà di quella che chiamano la Valle Perduta. È notte quando arrivo a S. Jacques. Nel 1972 non c’era ancora nessuna funivia. Trovo la fontana, quella c’è ancora adesso, uguale. Bevo, finalmente bevo, c’è anche un bottiglione con dentro un avanzo di vino, bevo anche quello. Ci sono le luci accese nel negozio-bar del paese, entro e chiedo uno, no due, anzi meglio tre panini, qualcosa da bere e mi siedo ad aspettare in una saletta davanti ad una bella stufa accesa. Appena i piedi e le mani congelate sentono il caldo comincio ad urlare dal dolore cosicché quando la signora arriva con il cibo si ritrova davanti un Seppi in lacrime. Le spiego che piango per il dolore ma forse anche per liberare tutta la tensione di queste due terribili giornate. Arriva mio fratello Giorgio a prendermi, con sgridate varie, non le sento neanche. A Punta Indren Berti, Pauli, Dolfi e non so chi altro, appena saputa la notizia, si sbronzano per la gioia.
Nota del Dolfi: eravamo stati radunati in tutta fretta e in gran segreto dal Berti. Ci disse che Seppi era partito da Cervinia e non si sapeva più dove fosse. “Dobbiamo andare a cercarlo“. Avevano fatto funzionare la funivia apposta per noi, ma, arrivati a Indren, ci eravamo resi conto che non si poteva assolutamente uscire per cercare qualcuno. C’era un vento fortissimo e non si vedeva niente, rischiavamo di perderci nella bufera anche noi. Eravamo rimasti a Indren tristi e preoccupati in attesa che le condizioni migliorassero. Dopo molte ore, finalmente ci arrivò la buona notizia che Seppi era sano e salvo a Gressoney. Il Retti Castagnola (custode della stazione) per festeggiare ha tirato fuori tutti i bottiglioni di vino che possedeva e così abbiamo trascorso la serata.
Arrivato ad Alagna chiamo Titti che stupita mi chiede: «Cosa fai qui? Non ti aspettavo proprio». Il giorno di Natale sarà memorabile ma io, di quello, non ho ricordi. Passo il resto dell’inverno a prendere medicine per far ricircolare il sangue nelle dita delle mani e dei piedi; ne ho alcune nere e non si sa se dovranno tagliarle o no. Avrò ancora fortuna.
Seppi (Giuseppe Enzio) nel Natale del 1972 aveva 17 anni. Diventerà Guida Alpina e per diversi anni farà parte del team che si occupa della gestione della piramide del CNR all’Everest, parteciperà anche ad alcune spedizioni in Himalaya fra cui quella di Reinhold Messner e la RAI sul Makalu. Ha fondato, nel 2015, l’associazione CUORE ATTIVO con cui costruisce scuole e acquedotti in villaggi poveri e sperduti del Nepal.
Meraviglioso racconto …
Ma almeno, la Titti, se lo e’ sposato uno cosi!?!
?
Bravo Davide, proprio un bel racconto !
E io che pensavo di essere strano quando nel fare le mie traversate in montagna, nel caso non ci siano mezzi pubblici o perda la coincidenza, ritorno a casa a piedi facendo più di dieci chilometri a piedi, quando va bene e guardato da tutti come se fossi un marziano? Mo’ me lo segno.
I 17 anni, che nostalgia…
Bello davvero il suo racconto, ma non solo questo a dire il vero, tutti quanti!
Un suo libro io lo leggerei davvero volentieri!