Lo videro arrivare da lontano, camminava lento sui resti della strada che portava in paese, come un’ombra allungata alla sera. Erano in pochi al bar in piazza, solo vecchi curvi e rugosi come pini cembri e bambini smagriti con gli occhi da volpe. Le donne erano al lavoro a seminare, tornate dai campi profughi spersi nell’Impero, avevano trovato solo rovine e filo spinato; da mangiare non era rimasto nulla, nemmeno le radici delle patate. Le si vedeva al mattino vestite di scuro indaffarate come le cornacchie intorno ai solchi lasciati dal cannone.
Fu il vecchio borgomastro, il Bepi, a riconoscerlo. I reduci avevano cominciato da poco a tornare; spesso da soli, con addosso la polvere di strade mai viste, il freddo delle nevi dei Carpazi e l’odore di fumo delle isbe dove avevano trovato rifugio. Si diceva in chiesa che il Franz ci fosse rimasto lì, nella Russia bianca e lontana, con una moglie dalle guance rosse come i fazzoletti che portavano sopra ai capelli quelle loro contadine.
Era magro Andreas, la pelle grigia come la cenere della stufa e i vestiti un ammasso di divise di reggimenti e paesi diversi.
I vecchi seduti sugli sgabelli tarlati davanti a lui masticavano lenti le loro pipe vuote e guardavano il sacco unto in spalla, dove prima brillavano le mostrine, e le sue scarpe, degli stracci tenuti insieme da fogli di giornale e spaghi.
Nessuno di loro si alzò, stettero lì silenziosi come i compagni lasciati in trincea.
Solo il Bepi fissò i suoi occhi mezzi ciechi per la cataratta in quei pozzi grigi come il ghiacciaio.
Racconto emozionante, complimenti a Benedetta, soprattutto per la tua frase finale “la felicità è un buon libro e un gatto che fa le fusa ai tuoi piedi”: condivido completamente!