Racconto

IL CASTAGNO

Con passo pesante salì la china del prato verde, il tarassaco luceva giallo impavido intorno al filo spinato arrugginito... E poi lo vide. Il castagno, un lato nero bruciato, era vivo.

testo di Benedetta Quaiatto

16/04/2023
4 min
Era una tiepida giornata di fine aprile quando il maggiore Andreas Egger ritornò a casa.

Lo videro arrivare da lontano, camminava lento sui resti della strada che portava in paese, come un’ombra allungata alla sera. Erano in pochi al bar in piazza, solo vecchi curvi e rugosi come pini cembri e bambini smagriti con gli occhi da volpe. Le donne erano al lavoro a seminare, tornate dai campi profughi spersi nell’Impero, avevano trovato solo rovine e filo spinato; da mangiare non era rimasto nulla, nemmeno le radici delle patate. Le si vedeva al mattino vestite di scuro indaffarate come le cornacchie intorno ai solchi lasciati dal cannone.

Fu il vecchio borgomastro, il Bepi, a riconoscerlo. I reduci avevano cominciato da poco a tornare; spesso da soli, con addosso la polvere di strade mai viste, il freddo delle nevi dei Carpazi e l’odore di fumo delle isbe dove avevano trovato rifugio. Si diceva in chiesa che il Franz ci fosse rimasto lì, nella Russia bianca e lontana, con una moglie dalle guance rosse come i fazzoletti che portavano sopra ai capelli quelle loro contadine.

Era magro Andreas, la pelle grigia come la cenere della stufa e i vestiti un ammasso di divise di reggimenti e paesi diversi.
I vecchi seduti sugli sgabelli tarlati davanti a lui masticavano lenti le loro pipe vuote e guardavano il sacco unto in spalla, dove prima brillavano le mostrine, e le sue scarpe, degli stracci tenuti insieme da fogli di giornale e spaghi.
Nessuno di loro si alzò, stettero lì silenziosi come i compagni lasciati in trincea.
Solo il Bepi fissò i suoi occhi mezzi ciechi per la cataratta in quei pozzi grigi come il ghiacciaio.

«Un’ombra di rosso per il figlio del vecchio Egger», disse facendo cenno all’oste con le due dita mozze della mano destra.
Andreas chinò il capo.
«Avrai sete».
«Sì, borgomastro. Grazie, la ripagherò».
Il vecchio negò stringendo le labbra seminascoste dai baffi.
«Torna a casa, maggiore Egger».
Non veniva chiamato con il suo grado dall’ultima battaglia in Galizia. Andreas Egger alzò gli occhi fucilando i vecchi ruminanti di pipa seduti davanti a lui.
«Vado».

Non chiese di suo padre, che la mamma fosse morta glielo aveva scritto sua sorella durante la prigionia in Russia. Altro non sapeva.
Saliva lento lungo il torrente, come la nebbia in autunno, in lontananza risuonava il richiamo del cuculo. Il ponte era distrutto ma lì, sotto al salice, l’acqua non era profonda, ci andavano le trote a deporre le uova a novembre.

Andreas guardò in alto verso la montagna, negli inverni passati amava ricordare con gli altri prigionieri le battute di caccia agli urogalli nei boschi natii. Quando il sangue sull’ultima neve era quello degli animali da mangiare a cena con la polenta.
Il maggiore si fermò. Quella fontana di granito con il lato destro allungato, dove sua madre gli lavava le camicie, era ancora lì. Sola.
Il suo maso, la sua casa, non c’era più.
Con passo pesante salì la china del prato verde, il tarassaco luceva giallo impavido intorno al filo spinato arrugginito.

E poi lo vide. Il castagno, un lato nero bruciato, era vivo. Andreas cadde in ginocchio passando le dita sul tronco rugoso, a tratti sentiva dei buchi, l’artiglieria non aveva risparmiato nessuno.
Finalmente si sedette e appoggiò la schiena al tronco conosciuto. La valle si aprì davanti a lui: l’erba dei prati era di quel verde timido di inizio primavera di cui i cervi sono ghiotti e un vento leggero gli scompigliava i capelli luridi incollati alla testa.

Un trillo lungo e allegro lo riportò al presente. Una cincia paffuta lo osservava con il capo inclinato e, aggrappata al ramo bruciato, cantava.

Benedetta Quaiatto

Benedetta Quaiatto

Mi chiamo Benedetta e da undici anni vivo a Innsbruck, in Tirolo. Sono nata in Trentino in un paesino di montagna, dove le pecore erano più numerose e loquaci degli abitanti. Le leggende della nostra valle e le storie di guerra raccontate dalla mia nonna lettrice, che piccola e morbida come un Krapfen, impastava canederli o rimescolava la polenta hanno accompagnato le mie giornate d’infanzia. Da qualche tempo ho deciso di spolverare un sogno lasciato ad ammuffire per troppi anni e ho iniziato a scrivere brevi racconti. Scrivo di me, della mia gente di montagna, di donne e uomini, piccole figure di vite normali. Giurista di giorno, scrittrice in erba di notte, la felicità è un buon libro e un gatto che fa le fusa ai miei piedi.


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1 commenti:

  1. Giorgio ha detto:

    Racconto emozionante, complimenti a Benedetta, soprattutto per la tua frase finale “la felicità è un buon libro e un gatto che fa le fusa ai tuoi piedi”: condivido completamente!

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