Mastico un freddo di prima estate che mi penetra nelle ossa, sputo il dolore che per troppo tempo mi ha imprigionato la testa e le gambe.
Faccio fatica a risalire quella rampa resa lucida e scivolosa da una rugiada inattesa. Procedo un passo dopo l’altro, calpestando steli d’erba ancora sonnolenti.
I battiti mi riecheggiano dentro, quasi volessero dialogare con la mia testa e le mie orecchie. Dovrei rallentare, forse, ma non riesco. Accelero per qualche metro lungo un traversone particolarmente ripido, poi d’improvviso asfissia, male alla testa, nausea. Passano trenta secondi e vedo solo più buio. Mi fermo e mi inginocchio, controvoglia. Sulla schiena sudata il respiro del vento, ora schiaffi, ora carezze. Qualche conato e sul terreno le tracce del mio malessere. Sofferenze, ricordi, rimpianti. Dopo un paio di minuti riparto, stavolta con più calma. Inspiro e lo sguardo corre da un versante all’altro. Espiro e la testa si alleggerisce dopo aver cacciato fuori dalla memoria le impronte di quei sentieri neri. Momenti bui per l’animo umano, bassifondi di solidarietà impensabili.
Mi chiedeva aiuto per raggiungere i suoi familiari oltre la frontiera. Poco dopo arrivarono anche la donna e il bambino, le cui lacrime si erano prosciugate per quell’aridità di sentimenti e di umanità.
Cominciava a far freddo e stavo ritornando a valle dopo l’ennesima escursione autunnale. Le intravidi da lontano nonostante la nebbia imminente. Tre sagome che camminavano a fatica, verso di me e verso il confine, lungo il ciglio della strada. Continuai a scendere finché non ci trovammo a pochi metri di distanza. L’uomo accelerò il passo e mi venne incontro. Pareva agitato, preoccupato, impaurito. Si buttò ai miei piedi senza proferire parola. Gli occhi parlavano per lui. Mi bisbigliò poi qualcosa con un filo di voce, in un impasto tra francese, inglese e italiano. Mi chiedeva aiuto per raggiungere i suoi familiari oltre la frontiera. Poco dopo arrivarono anche la donna e il bambino, le cui lacrime si erano prosciugate per quell’aridità di sentimenti e di umanità. Non avevo idea di cosa fare. Mi guardai intorno. Nessuna macchina, nessun rumore, solo l’eco della sera che si stava avvicinando. Fissai i loro occhi, ormai svuotati di speranza e di dignità. Non potevo andare fino al paese, ma decisi comunque di accompagnarli oltre il colle fino alla vecchia casetta del guardiacaccia. Lì, almeno, avrebbero passato la notte al riparo, poi al mattino avrebbero tentato di proseguire. Feci allora cenno ai tre di seguirmi, mi voltai e ripartii in direzione della frontiera. Il sentiero risaliva il versante prima di tuffarsi in un fitto lariceto e trasformarsi in un’agevole carrareccia. Velocizzai il passo per allontanarmi il prima possibile dalla statale e i tre mi seguirono in silenzio, come anestetizzati. La luce calava poco alla volta e quel sentiero mi pareva sempre più buio, sempre più nero, sempre più ostico. Risalito il versante, superammo un falsopiano ed entrammo finalmente nel bosco.
In pochi secondi mi furono addosso con i manganelli e con le armi. Prima di andare in ospedale, dieci ore di interrogatorio, di minacce, di insulti.
Mi sentivo più tranquillo, più sereno, convinto soprattutto di essere nel giusto. D’improvviso però, dietro un tornante, quelle quattro sagome. Un flash, un istante, uno scambio di sguardi. Capii subito e loro, altrettanto rapidamente, fraintesero. Mi fiondai giù per il pendio inseguito dalle urla e dalle minacce. Cento metri, forse meno, finché la caviglia non mi rimase incastrata in una piccola fossa. Il mio dolore si sovrappose alla loro rabbia. In pochi secondi mi furono addosso con i manganelli e con le armi. Prima di andare in ospedale, dieci ore di interrogatorio, di minacce, di insulti. E poi due settimane di prigione da innocente, finché tutto non si risolse ovviamente senza scuse.
Diversi mesi per guarire nel fisico e nella mente. Per interiorizzare quei sentieri neri che mi avevano visto protagonista di un cortocircuito sociale. Ed ora eccomi qui, di nuovo su una sterrata che punta alla testata della valle. Ai lati prati, abeti e ancora larici, che stavolta riesco però a raggiungere con la mente leggera.
Il sole ormai alto rende il cielo di un azzurro vivo. La luce si diffonde nella vallata, ma qua e là resistono comunque ombre più o meno lunghe che si muovono e si deformano. Sotto il loro abbraccio il terreno si scurisce e i sentieri tornano ad essere meno nitidi e più neri. Dopotutto là dietro c’è un’altra frontiera da attraversare, ma non adesso. Oggi mi fermo qui, in controluce sotto lo sguardo vigile del rifugio, ad ascoltare il respiro del mondo e a fissare l’acqua che scorre, nonostante tutto.