Passò prima per un bordello. Non aveva paura che quell’azione potesse ledere alle sue forze. Anzi! Le avrebbe rinvigorite.
Bevve prima e mangiò. Ma l’antagonistico sentimento che aveva in petto non gli lasciò di assaporare il vino fresco, un vino vivace che disseta nella calura della pausa. Né assaporò il pane, né l’olio o i rossi pomodori che nell’isola coltivavano belli. La sana determinazione lo animava, ma volta verso un fine che era contro sé stesso. Era esule dalla società da cui veniva, ma non se ne rendeva conto. Stava scappando dalla distruzione che era in atto in quel gruppo umano da cui l’Uomo proveniva. Se ne rendeva conto?
La Montagna è un luogo alto dove i mefitici olezzi non arrivano ancora, le Montagne sapevano resistere. Ma scalandole ad una ad una le Montagne diventano montagne. Ora toccava alla Montagna di un isola dove si edificano città dalla pianta regolare e custodita da laghi che sembrano Laghi ma son fatti a regola d’arte da uomini. Gli uomini possono tutto: santificare la Roccia o dissacrarla inserendola come mezzo in basse operazioni. A quale fine? La rivalsa contro la crudeltà, la vittoria contro la ferina società e poi la sua sconfitta. Non si accorgeva l’Uomo che faceva subire e patire agli altri soggetti lo stesso tormento che lui subiva e che gli doleva in petto? Voleva sconfiggere la montagna attraverso la tirannia altrettanto malata dell’orologio e tramite quel tempo redimersi e mondarsi lasciando ad altri il proprio fardello. Anche questo tempo non più Tempo con i figli Kronos e Kairos o Otium e Negotium, parti; partoriti e generati dallo stesso padre che ora è ridotto dentro ad un orologio. Quello non da santificare se non sotto forma di meridiana che ancora lascia il beneficio del circa, dell’opinione e del giudizio che si ha solo alla luce del sole. Ma l’Uomo non se ne rendeva conto e voleva andare sulla montagna.
Si inoltrava in quella rigida geometria cittadina che però mano a mano perdeva consistenza. Vecchi seduti alla base delle torri lo videro:
Non dire mai a nessuno straniero che non può salire la Montagna altrimenti aggredirà e si arrabbierà e creerà disordine per salirvi.
Bisbigliavano così tra loro i canuti e chi non mosse le labbra lo notò con lo sguardo, per essere conscio di ciò che accadeva, senza però interrompersi dalle storie che narrava ai pochi giovani che sedevano caracollanti e molli fra loro, presso le scalinate della base ai piedi delle torri.
Si estendeva lo Spazio mentre l’Uomo lo camminava. Non gli era mai capitata una cosa simile: perdere l’orientamento. Solo l’inclinazione delle vie lastricate poteva fargli intuire il senso di marcia, ma non si sarebbe aspettato poi di trovarsi in quella piazza o presso quella torre. Non era più in grado di vedere nitidamente il futuro, di scorgere ancora quel programma impermeabile alle situazioni che si era obbligato di compiere.
Con questo tempo e spazio che si dilatavano l’Uomo cominciò a temere per la sua impresa. Non era, si sa, una semplice camminata o una esplorazione; era una missione per conto del suo ego. La città di un isola, i suoi enormi spazi, non rispondevano alle di altrui volontà. Il programma andava comunque completato, indipendente dalle situazioni! Il tempo, di cui non riusciva più bene ad avere memoria certa, poteva finire in fretta, ci si doveva quindi affrettare, corrergli appresso cosicchè il cappio non si tendesse. Una corsa contro il tempo per lo scalpo di un’altra montagna. Averla, possederla. Andare sulla cima della montagna e il pensiero di entrarvi dentro neppure lo sfiorò.
Entrò in un ufficio, pagò della gente e tutto era fatto: l’indomani verso la montagna.
Un corso, a me, per scalare una montagna.
Offeso, non si può dire altrimenti, offeso nel suo ego da arretrati valligiani, lenti e dai tratti sempre aperti ad una parola, ad un input, sempre attivi nel pingare.
Astuti ed avidi: pericolosi quindi. Dovrò fermarmi una notte in più.
Tempus irreparabile fugit. Ed anche l’Uomo fuggiva ma non se ne rendeva conto. E tanto più provava la fuga attraverso le strade già segnate tanto più si addentrava verso una rete di cunicoli così stretti da sembrare gattabuie. Scappava da quel gruppo umano in distruzione verso cui, dopo aver ottenuto l’ennesima tacca, il successivo selfie su di una montagna, solo dopo avrebbe riabbracciato tornando in quelle strette spire. Fino alla prossima fuga, contata però dal padrone e quindi obbligata a seguire vie già battute. Occorreva ribellarsi ma l’Uomo non se ne rendeva conto.
Una montagna e poi a casa.
Quelle regole che gli erano imposte lui voleva imporle alla Montagna, domandola sotto i suoi ottusi passi, insensibili alle Rocce.
Il Governo, in quella città concentrica di un isola, era appena cambiato. Nuove regole, nuove strade da far battere alla gente. Nella speranza di addescare nuovi clienti oppure desiderosi di portare il Bene nella Città perché dal Bene erano diretti i governanti? Queste nuove regole cozzavano contro la politica del fare, erano attendiste ed obbligavano l’Uomo a distogliersi dall’ossessione del suo risultato. Attendere una mattina intera in un monastero prima della partenza per una montagna. Inconcepibile attendere, inconcepibile assaporare il vino con cui si stava ubriacando ai lati di una viuzza trafficata di animali e genti.