LA FOGA DELLA MONTAGNA

Scalare o non scalare una Montagna di un'isola, questo è il dilemma.

testo e foto di Piero Carniel

14/03/2024
6 min
Si estendeva lo Spazio mentre l’Uomo lo camminava. Non gli era mai capitata una cosa simile: perdere l’orientamento.

L’Uomo sbarcò su di un isola. Veniva da poche ore di volo. Un comodo marchingegno a motore aveva annullato il viaggio.
La sua intenzione era quella di scalare ogni montagna avesse trovato lungo il suo peregrinare nella rete. Non si sarebbe però fermato al semplice desiderio, che se non tentato dissipa le energie. L’Uomo dal passivo ed annichilente scrolling alle volte ne usciva, e sbattendo contro l’oggetto della sua eterodiretta libido, decise quella volta di ottenerlo.
Per arrivare alla montagna di un isola inevitabilmente entrò in contatto con la popolazione che su un’isola vive. Le loro città sono costruite tutto intorno a grandi cattedrali. Ampi fossati le circondano, che non basta un essere forte per farvi tutto il periplo in giornata. L’alpinista superò i canali artificiali insieme alle altre genti che di lì andavano e venivano. Il cielo era tanto splendidamente sereno e pieno di vita che la spedizione non era a rischio. Salire la Montagna più alta nel minor tempo possibile. Vincerla! E solo così possederla!
Era certo l’uomo-alpinista, che non avrebbe fatto la fine di Drogo: non avrebbe atteso! Non poteva attendere, non vi era permesso. Il tempo era contato e l’impresa andava fatta! E poi lui non veniva da un ambiente di aristocratica ovatta, lui scappava. Scappava di meta in meta, di passo in passo, e ciò che incontrava nel suo cammino andava sempre mietuto: l’ultimo che spara è l’uomo morto.
Andare sulla Montagna, la Grande?!
Il vecchio non era solo furibondo, era sdegnato. Lo sdegno, la rassegnazione a quella malata velleità dissanguavano le sue forze, di vecchio, incapace così di incendiarsi e di incedere verso lo straniero. Oramai erano tutti come lui, la Montagna la contavano e non ci stavano dentro: andavano sulla montagna non nella Montagna.
Vai laggiù e loro ti porteranno.
Indicava una massiccia torre che si alzava insieme ad altre due gemelle al centro delle concentriche mura. Bastioni in forma di rettangoli inscritti uno nell’altro che il più esterno pareva immenso poichè si inabissava nel bosco di immensi alberi.

Le loro città sono costruite tutto intorno a grandi cattedrali. Ampi fossati le circondano, che non basta un essere forte per farvi tutto il periplo in giornata. 

Passò prima per un bordello. Non aveva paura che quell’azione potesse ledere alle sue forze. Anzi! Le avrebbe rinvigorite.
Bevve prima e mangiò. Ma l’antagonistico sentimento che aveva in petto non gli lasciò di assaporare il vino fresco, un vino vivace che disseta nella calura della pausa. Né assaporò il pane, né l’olio o i rossi pomodori che nell’isola coltivavano belli. La sana determinazione lo animava, ma volta verso un fine che era contro sé stesso. Era esule dalla società da cui veniva, ma non se ne rendeva conto. Stava scappando dalla distruzione che era in atto in quel gruppo umano da cui l’Uomo proveniva. Se ne rendeva conto?
La Montagna è un luogo alto dove i mefitici olezzi non arrivano ancora, le Montagne sapevano resistere. Ma scalandole ad una ad una le Montagne diventano montagne. Ora toccava alla Montagna di un isola dove si edificano città dalla pianta regolare e custodita da laghi che sembrano Laghi ma son fatti a regola d’arte da uomini. Gli uomini possono tutto: santificare la Roccia o dissacrarla inserendola come mezzo in basse operazioni. A quale fine? La rivalsa contro la crudeltà, la vittoria contro la ferina società e poi la sua sconfitta. Non si accorgeva l’Uomo che faceva subire e patire agli altri soggetti lo stesso tormento che lui subiva e che gli doleva in petto? Voleva sconfiggere la montagna attraverso la tirannia altrettanto malata dell’orologio e tramite quel tempo redimersi e mondarsi lasciando ad altri il proprio fardello. Anche questo tempo non più Tempo con i figli Kronos e Kairos o Otium e Negotium, parti; partoriti e generati dallo stesso padre che ora è ridotto dentro ad un orologio. Quello non da santificare se non sotto forma di meridiana che ancora lascia il beneficio del circa, dell’opinione e del giudizio che si ha solo alla luce del sole. Ma l’Uomo non se ne rendeva conto e voleva andare sulla montagna.
Si inoltrava in quella rigida geometria cittadina che però mano a mano perdeva consistenza. Vecchi seduti alla base delle torri lo videro:
Non dire mai a nessuno straniero che non può salire la Montagna altrimenti aggredirà e si arrabbierà e creerà disordine per salirvi.
Bisbigliavano così tra loro i canuti e chi non mosse le labbra lo notò con lo sguardo, per essere conscio di ciò che accadeva, senza però interrompersi dalle storie che narrava ai pochi giovani che sedevano caracollanti e molli fra loro, presso le scalinate della base ai piedi delle torri.
Si estendeva lo Spazio mentre l’Uomo lo camminava. Non gli era mai capitata una cosa simile: perdere l’orientamento. Solo l’inclinazione delle vie lastricate poteva fargli intuire il senso di marcia, ma non si sarebbe aspettato poi di trovarsi in quella piazza o presso quella torre. Non era più in grado di vedere nitidamente il futuro, di scorgere ancora quel programma impermeabile alle situazioni che si era obbligato di compiere.
Con questo tempo e spazio che si dilatavano l’Uomo cominciò a temere per la sua impresa. Non era, si sa, una semplice camminata o una esplorazione; era una missione per conto del suo ego. La città di un isola, i suoi enormi spazi, non rispondevano alle di altrui volontà. Il programma andava comunque completato, indipendente dalle situazioni! Il tempo, di cui non riusciva più bene ad avere memoria certa, poteva finire in fretta, ci si doveva quindi affrettare, corrergli appresso cosicchè il cappio non si tendesse. Una corsa contro il tempo per lo scalpo di un’altra montagna. Averla, possederla. Andare sulla cima della montagna e il pensiero di entrarvi dentro neppure lo sfiorò.
Entrò in un ufficio, pagò della gente e tutto era fatto: l’indomani verso la montagna.
Un corso, a me, per scalare una montagna.
Offeso, non si può dire altrimenti, offeso nel suo ego da arretrati valligiani, lenti e dai tratti sempre aperti ad una parola, ad un input, sempre attivi nel pingare.
Astuti ed avidi: pericolosi quindi. Dovrò fermarmi una notte in più.
Tempus irreparabile fugit. Ed anche l’Uomo fuggiva ma non se ne rendeva conto. E tanto più provava la fuga attraverso le strade già segnate tanto più si addentrava verso una rete di cunicoli così stretti da sembrare gattabuie. Scappava da quel gruppo umano in distruzione verso cui, dopo aver ottenuto l’ennesima tacca, il successivo selfie su di una montagna, solo dopo avrebbe riabbracciato tornando in quelle strette spire. Fino alla prossima fuga, contata però dal padrone e quindi obbligata a seguire vie già battute. Occorreva ribellarsi ma l’Uomo non se ne rendeva conto.
Una montagna e poi a casa.
Quelle regole che gli erano imposte lui voleva imporle alla Montagna, domandola sotto i suoi ottusi passi, insensibili alle Rocce.
Il Governo, in quella città concentrica di un isola, era appena cambiato. Nuove regole, nuove strade da far battere alla gente. Nella speranza di addescare nuovi clienti oppure desiderosi di portare il Bene nella Città perché dal Bene erano diretti i governanti? Queste nuove regole cozzavano contro la politica del fare, erano attendiste ed obbligavano l’Uomo a distogliersi dall’ossessione del suo risultato. Attendere una mattina intera in un monastero prima della partenza per una montagna. Inconcepibile attendere, inconcepibile assaporare il vino con cui si stava ubriacando ai lati di una viuzza trafficata di animali e genti.

Camminando la notte si era reso conto di salire ma non di dove si trovasse. Il mattino ed il suo sole aprivano la vista ad una piana incastonata tra alte pareti di roccia che erano sì enormemente distanti ma che a causa della loro incommensurabile mole parevano incombere sulla città.

Il mattino si recò al tempio. Camminando la notte si era reso conto di salire ma non di dove si trovasse. Il mattino ed il suo sole aprivano la vista ad una piana incastonata tra alte pareti di roccia che erano sì enormemente distanti ma che a causa della loro incommensurabile mole parevano incombere sulla città.
Scendendo per sentieri fra belle mura a secco l’Uomo odorava l’acre e profumato fumo del ginepro. Lo stesso odore era nel monastero, nel piccolo tempio. Tolte le insensibili galosce, progettate dalla più alta tecnologia per salire sulle montagne senza doverle sentire, entrò nella stanza quieta ed accogliente di tappeti.
Attendere, per ore, cosa? Sentire non il Tempo che passa e fluisce ma il conto alla rovescia verso la fine del suo permesso dal lavoro. Chiedere il permesso per andarsene da un posto orribile.
Aberrazione. Pensò l’Uomo.
Voler tornare dal padrone perché lo sfamasse come un cane. Se ne rendeva conto? Non lo sappiamo, ma l’Uomo era certo insofferente. Prender il telefono, prenotare un volo, scrollare uno schermo, vedere se qualcuno, qualsiasi, all’altro capo del mondo e del telefono avesse intenzione di mettersi in contatto con lui. Così incomprensibilmente distante dallo spazio e quindi dal tempo dove l’Uomo stava, era un qualsiasi interlocutore telematico tanto che non vi sarebbe mai potuta essere una comunicazione, mai partecipazione. Era invece in un monastero ma non se ne rendeva conto.
Un altro uomo nel tempio sedeva, con la spina delle ossa tirata verso il Cielo ed il sedere ben radicato a Terra. Respirava, gli occhi chiusi e poi gentilmente aperti e poi di nuovo, con altrettanta delicatezza, richiusi.
Come fa il cane da pastore con le pecore l’altro uomo faceva con i pensieri. Li osservava mentre si muovevano formando un gregge, di lassù bello ed uniforme, ma standoci dentro caotico di zoccoli, scalpiccii e belati. Poi una pecora si stacca, si allontana dal gregge ed il cane la individualizza. Così, un pensiero, sale dal brusio degli altri ma l’altro uomo non vi entra; lo guarda, lo contempla. Da troppo il cane è attratto da quel pensiero ed è dimentico del suo respiro, ed allora torna al proprio corpo, indirizza la sua spina dorsale verso il cielo e parte per riportare la pecora verso il gregge ed il pensiero al respiro.
Ma l’Uomo non se ne rese conto e continuò ad attendere, lasciandosi scivolare un tempo che il solo orologio non poteva popolare di significati.
L’attesa era finita, si poteva lasciare il tempio e partire. Ma all’Uomo, quando ormai il monastero era distante, salì dell’amaro in bocca, della insoddisfazione, e se ne rese conto. Aveva perso del Tempo pagato dal suo tempo retribuito, nella insoddisfazione dell’anonimato, del conformismo a regole dettate da altri, subite e non discusse, su cui non vi era accordo tra le parti. Chiedere il permesso di trasgredire a regole mai espressamente accettate.
Aberrazione. Pensò l’Uomo.
Un lampo e poi si entrò nelle nubi, di nuovo fra le ombre delle cose che sono. Si sa che per raggiungere l’Olimpo occorre attraversare indenni la densa coltre di nubi e la Montagna di un isola non faceva eccezione. Un gregge di pecore comparve nella nebbia delle nubi basse: due cani e due pastori. Sulla sinistra invece, appena sopra il crinale, un solido edificio in solida roccia ma con i fori lasciati sgombri di porte e finestre attraverso le cui coincidenze si vedevano scampoli di azzurro. Sulla destra il bosco, i roveri bassi e frondosi lambiti dalle nuvole sospinte dal vento. Attraverso la fatica dell’Uomo la nebbia si diradò.
Nuvole basse. Pensò l’Uomo animato da una sana determinazione. La Roccia
apparve a pochi metri da lui, calcare solido e compatto.
Era ai piedi della Montagna di un isola.

Piero Carniel

Piero Carniel

Leggo e faccio di conto. Sono nato vicino alle Dolomiti Venete e se la massa dell’oggetto è direttamente proporzionale alla sua forza d’attrazione allora non è solo per libera scelta che sto qui.


Il mio blog | Grazie a Altitudini.it, se scrivo di montagna, e se scrivo in generale, io te lo mando.
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