Arriva il giorno che poi ti fermi. Che qualcosa si inceppa. La corsa, per un istante, s’arresta.
Succede che non ti va più, che tiri indietro l’ago e ne hai abbastanza. Guardarsi negli occhi e dirsi che basta così. Per oggi. Per quest’anno. Forse per un po’. Dirselo senza recriminazioni e giochi di parole. Anche se è una fottuta cengetta di ghiaia facile, che ti vergogni quasi a dirlo e ti guardi attorno cercando una scusa. Il tempo? La neve? I ramponi? Qualcosa. Ma una scusa non c’è. Hai tirato indietro l’ago, tutto qua.
Erano i giorni dell’alta pressione, quelli, di cieli sempre uguali, assenti di nuvole e parole. Giorni in cui attraversavamo le montagne come disertori in una città liberata, immemori delle guerre dei nostri padri. Tutto era permesso, eppure rimpiangevamo i tempi della prigionia. Nei giorni dell’alta pressione le montagne erano nude e noi ne avevamo smarrito il mistero. Neanche questa poca neve restituiva qualcosa dell’antica bellezza.
Dovevamo capirlo subito, quel mattino. Dal succedersi scostante degli ometti, da una frana inattesa. Dal greto dileguato dalle acque.
Come la fine di Fantàsia, pezzo per pezzo un mondo fantastico crolla, collassa, svanisce nel Nulla.
Persa ogni speranza di seguire la traccia corretta, risaliamo il fondo della gola, facendo attenzione a non scambiare il ghiaccio annidato nelle pozze con la roccia chiara e levigata. Il muschio, di un verde che sbiadisce, si sgretola come sabbia tra le mani.
Senza accorgercene, passiamo oltre la sorgente al colmo della valle. È una pozza così piccola che ci passi col piede e nemmeno ti accorgi di tanto miracolo. Oggi i prati – poche macchie d’erba gialla, pelati dal vento, da una calvizie di ghiaia che si espande – sembrano lande abbandonate. Procediamo senza dire nulla.
Oggi non arriveremo da nessuna parte, forse più per mancanza di fantasia che di coraggio. Magari diremo che si era fatto tardi.
Risaliamo alla cieca un canalone, nella distanza che tra noi si fa distacco. I ramponi mordono la neve vecchia ed indurita. Un passo, picca, un passo, picca. Ai lati, colate di ghiaccio appena accennate pendono come bave sopra detriti di ghiaccioli ammassati. Ogni tanto il fischio di una scarica si abbatte in qualche forra invisibile. Poi torna, di piombo, il silenzio. Nemmeno più il vento.
Come la fine di Fantàsia, pezzo per pezzo un mondo fantastico crolla, collassa, svanisce nel Nulla. Se dovessimo crearlo daccapo, saremmo in grado di immaginare tutto di nuovo?
Ci ritroviamo abbarbicati all’apice di una crestina non più larga di due posti.
Attorno, montagne sorgono dal nulla di valli senza rumore. Non una parola tra noi, prima di ricominciare la sequenza inversa: picca, passo, passo, picca.
Leviamo i ramponi e consumiamo una sosta che non ci riesce piacevole.
«Siamo giusto in tempo per tornare senza correre»
«Già. Forse meglio seguire il sentiero e non cercare altri problemi per oggi»
Che stiamo facendo? Perché questo cuore pulsa in testa? Cosa stiamo ancora cercando?
L’avremmo perso dopo pochi minuti, il sentiero. La bella traccia vista dall’alto smarrita nel disordine di una mugheta. Qualche ometto abbozzato, un rametto tranciato, tracce appena più profonde nella terra. Infine il bosco, ripiegato su se stesso. Paiono mille anni che nessuno passa da qui.
Divalliamo a precipizio per un bosco sospeso sopra qualcosa che ci inquieta. Al nostro fianco precipita un canalone stretto e ripido. Man mano che scendiamo ogni possibilità di riattraversarlo si assottiglia. Che stiamo facendo? Perché questo cuore pulsa in testa? Cosa stiamo ancora cercando?
Il pendio di foglie si inclina sempre più, costringendoci ad afferrare i rami, a scivolare qua e là finché non capiamo che dobbiamo infilarci proprio là dentro, nel canalone da cui fuggiamo. Che non vi è altra scelta se non la trappola che ci siamo creati.
Caliamo in questa forra stretta, aperta come una ferita sul fianco del bosco. Ogni metro è un ponte che si taglia, ogni metro una rinuncia. Le pareti ai lati sono levigate, ogni tanto una marmitta scavata dalle acque crea un inatteso sedile, mentre di questa discesa – che pare quasi una caduta – non vediamo fine.
Non so come posiamo di nuovo i piedi sul fondo del vallone, ritrovando d’improvviso la fila smarrita degli ometti e le orme lievi del mattino. Come se nulla fosse stato.
Lascio passare qualche istante che si normalizzi il respiro e il battito del cuore. Infine lo sguardo, fin lì concentrato sui singoli passi, si risolleva.
«Sembrano delle belle linee» dico indicando delle traiettorie immaginarie sul versante opposto del vallone.
«Ma forse meglio se ne riparliamo tra un po’», aggiungo.
Ci vorrà del tempo. Ne sono sicuro. Il tempo è una cosa che sottovalutiamo troppo spesso. Forse tra questi sassi non scorrerà più acqua, così come quella colata di ghiaccio non si riformerà. Questo cammino domani potrebbe essere svanito e noi, in quel bosco, aver seguito un sentiero inesistente.
Non è detto che Fantàsia risorga.
Ci vorrà del tempo. Dovremmo prendercelo, ogni tanto. E risognare tutto di nuovo.