«Lucia, è tuo il Nesquik?» chiede il Maresciallo Paolocci frugando nel suo zaino. Tira fuori una scatola di plastica gialla.
«Ti sembro una che beve il Nesquik a colazione, Paolocci?» lo apostrofa beffarda la Lucia, mentre sistema nella sua credenza un pacco di spaghetti da 1 kg.
«No, Paolocci. Il Nesquik è di Giordano», interviene il Capitano Volpini, sedendosi sulla grande panca della cucina. Si toglie il basco e lo poggia sul tavolo di legno. Il rumore della pentola sulla stufa fa a gara con la voce di una conduttrice che sbraita dalla televisione. «È passato direttamente dal prosecco al Nesquik, Giordano?» scherza la Lucia, facendo scoppiare Maresciallo e Capitano in una fragorosa risata. Alle sue spalle, il tipico ritratto di Ernesto Che Guevara scruta tutti dall’alto, incastrato tra una gerletta e un vecchio rampone.
Quando qualche giorno prima ci eravamo sentiti al telefono, il Capitano Volpini mi aveva assicurato che se volevamo conoscere un montino DOC dovevamo andare proprio a casa della Lucia: «è l’anima del paese, vedrete». E così avevamo fatto.
Monteviasco si trova in alta Val Veddasca, nelle Prealpi lombarde, e costituisce la seconda metà del comune di Curiglia con Monteviasco. Dal cimitero, il punto più panoramico del paese, si intravede il Lago Maggiore, mentre tutto intorno una corona di montagne chiude l’orizzonte a mezza altezza. Segnano il confine con il Canton Ticino: appena dietro le creste, c’è la Svizzera. Guardando verso il basso, invece, si aprono le case del borgo, un centinaio circa, tutte costruite in pietra e legno su quattro livelli diversi, per far sì che il sole possa colpire sempre le pareti e i balconi di ogni abitazione. Ci sono due chiese, il lavatoio e un numero indefinito di fontane, tre ristoranti – di cui due ormai chiusi – e il vecchio ostello. Attualmente solo sette persone risiedono qui per tutto l’anno, tra cui la Lucia, classe 1944.
Letta così potrebbe sembrare una delle innumerevoli storie che raccontano lo spopolamento dei borghi alpini. Ma c’è una peculiarità che rende Monteviasco diverso da tutti gli altri paesi della provincia, della regione e forse di tutto l’arco alpino. Perché se nel corso del ‘900 tra le valli di montagna sono comparse le carrozzabili, l’asfalto, le automobili, i trattori, a Monteviasco tutto questo non è mai arrivato. Da sempre, Monteviasco è infatti il borgo che non ha mai avuto una strada. L’unica via d’accesso al paese, oggi come duecento anni fa, è una mulattiera di 1.442 gradini che conduce a Mulini di Piero, l’ultima località raggiunta da una strada asfaltata. Da lì si comincia a salire e, dopo un’ora in una fitta faggeta, si intravedono le prime case del borgo, a 950 s.l.m.
La Lucia spegne il fornello, si sistema il golfino, si accomoda al tavolo e inizia a raccontare la sua Monteviasco. Nelle sue parole si rincorrono tutti i topoi di quelle storie d’infanzia, pregne di immagini e ricordi, che hanno vissuto molte persone nate e cresciute nelle Alpi degli anni ’50. Le camminate sulle radure a cercare i nidi di pernice, la processione a fine maggio, gli spettacoli della compagnia teatrale, la banda, che contava 10 fisarmoniche, 4 chitarre e un mandolino. Storie, consuete, di borgate che vivevano di pastorizia e agricoltura familiare, di uomini e donne che, per andare a vendere i loro formaggi giù in bassa valle, dovevano farsi ore di cammino nel bosco.
«Per noi era questa la normalità, perché vedevamo i paesi dall’altra parte della valle che, nonostante avessero la carrozzabile e qualche macchina, vivevano come noi» sostiene la Lucia. Il suo racconto è passionale, entusiasta, un po’ nostalgico ma molto equilibrato, nonostante il trasporto delle sue parole. «I sacrifici erano terribili, enormi. Ma un tempo le donne – l’ho fatto anche io da piccola – scendevano giù a Curiglia a piedi, compravano il pane, portavano su tutto quello che serviva ai negozi – perché qui c’erano 3 negozi – e poi andavano a fare la giornata. La vita era quella, non c’era alternativa».