Reportage

#89 REDEMPTION SONG

testo e foto di Maria Elena Adorni de Silva  / Calle Larga, Los Andes, Chile

02/01/2021
8 min
Il Bando del BC20

Redemption Song

di Maria Elena Adorni de Silva

Mi sveglio nella pioggia, mi accorgo sta entrando acqua nella tenda. Apro gli occhi e sono già stanca. E’ il quattordicesimo giorno che sono in cammino.

Mi lavo la lingua e inizio a mettere tutto nello zaino. Divento sempre più veloce. Le cose che mi servono sempre nella tasca di destra, gli utensili per cucinare in basso. Il sacco a pelo per primo e subito dopo i guanti da sci che ho comprato prima di partire; a volte li metto come scalda piedi quando fa troppo freddo la notte. C’è acqua dappertutto. Non potevo scegliere una zona secca desertica? Una regione equatoriale? Mi chiedo se dove sei tu piove, mi chiedo se fossi qui sarebbe tutto più facile.

Faccio colazione con un pugno di avena. Il miele che mi presta Ricardo toglie un po’ il sapore di prigione. Tutto è già umido ed io non ho nemmeno iniziato a camminare. Spesso mi chiedo perché non ho deciso di percorrere questi mille chilometri di Carretera Austral in bicicletta come fanno tutti e perché ho deciso di viaggiare in autostop.
Saluto Ricardo. Grazie di tutto, gli dico, per il merluzzo fritto e le storie. Ieri sera si è seduto nel prato, mentre stavo scrivendo il manifesto per cambiare la mia vita. Vive qui a Rio Puelo da quattro anni ma solo in estate, in inverno ritorna sempre a Santiago come fanno in molti. E’ divorziato dalla moglie e mi racconta di suo figlio, di quando l’ha portato a tagliare i capelli e poi non è voluto tornare dalla parrucchiera mai più. Mi dice che Bach è la sua musica preferita. Fa parte del movimento Puelo Sin Torres, che lotta contro la costruzione di una centrale idroelettrica. Dice che i danni legati alla deforestazione sarebbero enormi. Solo guardandoci intorno possiamo vedere quattro o cinque tipi diversi di alberi ed ogni albero attira diversi tipi di insetti ed ha un suo ecosistema. La compagnia della centrale esporterebbe l’energia in Brasile ed Argentina, come succede per tutte le risorse naturali del Cile. Secondo Ricardo non riusciremo a salvare il pianeta, io gli dico che è difficile educare le persone all’idea che ogni azione ha una conseguenza. Penso a me stessa e a quante volte me lo sono dimenticata.

Quando Ricardo se ne va continuo a scrivere il manifesto per il cambiamento. Qui, nella mia tenda minuscola e fetida, non so bene se siano gli scarponi o i calzini rimasti bagnati e comunque non posso metterli fuori perché continua a piovere. Con la penna nera umida scrivo a lettere piccole e con pochissimi spazi per non sprecare la carta dell’unico quaderno che ho: numero uno – ogni azione ha una conseguenza.

Mi metto a camminare. La pioggia è talmente tanta che mi entra in bocca e nel naso. La sputo, è dolciastra. Intorno a me, solo campi agricoli e la cordillera, che mi guarda da lontano, irraggiungibile.

Dopo cinque chilometri una donna dentro una jeep si ferma a raccogliermi. Le chiedo scusa per bagnarle così tanto il sedile, c’è già una pozzanghera sotto gli scarponi. Lei mi chiede cosa ci faccio qui, perché vengo da così lontano. Non lo so, le dico.

Caleta Puelche sono tre case, la rampa per il traghetto e un negozio di empanadas. C’è una vecchia signora che vende quadretti in legno con paesaggi scolpiti a mano. Ho mille pesos che avanzano e glieli regalo. Le dico che non voglio niente, ho già troppo peso sulle spalle. Pranzo con un pezzo di formaggio rancido e il pane un po’ vecchio, che tanto ho lo stomaco forte. Poi, ricomincio a camminare. Il vento corre talmente veloce che sposta le nuvole e arriva il sole ad asciugarmi. Finalmente. Mi lascio asciugare dall’aria. Sulla mia destra, l’oceano Pacifico e sulla sinistra, i ghiacciai in lontananza. E’ là che devo arrivare in qualche modo. Ora vedo solo spiagge lunghe con pescherecci abbandonati. Guardo l’orizzonte, e vorrei che durasse per sempre.

Un’auto si ferma e mi carica, è un uomo solo, mi dice che può lasciarmi a Contao perché lui continua sulla costa. Lavora all’allevamento di salmone, come tutti da queste parti, è una delle attività principali delle coste del Sud. Ma sta rovinando l’ecosistema marino e la pesca tradizionale sta scomparendo, mi dice. Mi lascia qualche chilometro più in là, dandomi la sua benedizione. Due cani neri iniziano a seguirmi, beviamo insieme come tre vecchi amici e gli dò un pezzetto di pane che mi è rimasto nello zaino. Con loro mi sento invincibile. Mi guardo le mani e sono tutte tagliate. Ti verranno le mani come un marinaio, mi avevi detto. Sono le cinque del pomeriggio, passa un bus e decido di prenderlo. Mi ero promessa che avrei preso il bus solo tre volte in tutto il tragitto, come i tre desideri della lampada. Appena salita, mi prende lo sconforto, quante persone non incontrerò? Ho lasciato i miei amici cani.

L’autobus si ferma davanti ad una piccola casa bianca. Il bus rosa confetto, chiamato Los Libertadores, non partirà più. L’hanno parcheggiato al lato della carretera e l’autista con la camicia macchiata dal sudore prova ad aggiustarlo con chiavi inglesi molto grandi. Arrivano le sette di sera e l’autobus è ancora fermo. L’uomo seduto di fianco a me parla molto veloce, ma ha pochi denti e non lo capisco bene. Gli dico si, si, creo que si. La piccola TV dell’autobus proietta un film doppiato in spagnolo ambientato nel far west con una donna che spara ma poi arriva il pistolero che spara meglio di lei. Prometto a me stessa che non prenderò mai più l’autobus. Dal finestrino vedo baracche sul mare prosciugato dalla bassa marea; un ragazzo tatuato in un cortile e un bambino sull’altalena. Non ho mai visto così tanti alberi.

Scendo dal bus e mi incammino verso la foresta sulla costa. Una fila di auto passa a tutta velocità, strombazzando i clacson e sventolando bandiere. Ci saranno le elezioni presidenziali questa settimana. Il tramonto è molto lungo, un tipo di paesaggio a me nuovo. E’ mare ma non sembra mare. Le montagne sono così vicine e la foresta così fitta. Alcuni avvoltoi ondeggiano sopra di me. Sento le cozze scricchiolare sotto gli scarponi.

Pianto la tenda nella foresta, le rane cantano. La doccia è una cascata a getto d’acqua gelata, ma devo togliermi il sudore di dosso. Provo a non urlare. Mi concentro sulla nuvola di vapore che esce dalla pelle, molto più calda dell’acqua. Salto la cena, mi brontola la pancia ma è buio e non ho voglia di cucinare i fagioli, devo risparmiare gas della bomboletta. Muovo la torcia sulla testa sopra la vegetazione con il ritmo delle rane che cantano. Devo sembrare un animale, in piedi in mezzo illuminando le piante in calzoncini e canottiera. Prendo una foglia di conifera e la metto nel mio diario. Poi mi addormento, ascoltando i suoni della foresta.

Cochamò in lingua Mapuche significa ‘acqua salata’. E’ il punto della costa cilena in cui il mare e le montagne sono più vicine, dove i primi gauchos iniziarono ad importare i cavalli dall’Argentina attraversando la cordillera. La chiamano lo Yosemite del Sudamerica, per le sue pareti di granito. Mi incammino verso le montagne partendo dalla costa, il mare sembra un lago prosciugato, c’è la bassa marea. Il peso dello zaino diventa subito famigliare. Mi metto a camminare in salita fino al tramonto, mentre uomini e donne più agili e allenati di me mi sorpassano sul sentiero con le corde sugli zaini, seguiti dai gauchos che portano greggi di pecore a cercare pascoli a monte, a cavallo. I sentieri sono stretti e scavati nella terra, mi fermo per farli passare. Hanno i coltelli più lunghi che io abbia mai visto appesi alle cinture e degli speroni grandi come la mia faccia. Mentre sfilano davanti al mio viso, li guardo e mi sento piccola, ma non mi fanno paura.

Un giorno imparerò a cavalcare come un uomo. Mi dicono che i fiumi sono in piena, un uomo in motocicletta mi dice di stare attenta ad attraversare i fiumi, qualcuno è morto la scorsa settimana. Lo ringrazio. Penso che mi piacerebbe imparare ad arrampicare un giorno. Il mio corpo fa male, ogni cosa, le spalle sono quelle peggiori. Pianto la tenda la sera insieme agli scalatori e al gruppo di gauchos. Un ragazzo mi dice che il mio zaino è molto grande, se sono venuta ad arrampicare. No, non si può arrampicare soli, gli dico. Mi sento come un cane rabbioso. Voglio stare da sola e ululare alla luna. Vorrei che tutti stessero in silenzio ad ascoltare gli uccelli che stanno cantando, che tutti uscissero a guardare la notte. Poi, un cavallo imbizzarrito attraversa la radura. Sento gli zoccoli che fanno tremare la terra su cui appoggio la tempia. Galoppa libero dalle redini e scompare nella foresta, verso le montagne.

La mattina all’alba mi rimetto in cammino, prima che tutti si sveglino, voglio sparire senza lasciare traccia, senza che nessuno mi veda. Vado verso il Paso del Leòn, un percorso di cinque giorni tra le montagne che mi avrebbe portato al Lago Tagua Tagua. Chiedo indicazioni ai gauchos seduti intorno al fuoco, già svegli e pronti per la giornata di lavoro. Mi dicono di seguire il fiume. Dopo circa sei ore di cammino mi distraggo e perdo traccia del sentiero. Non c’è nessuno questa volta. Provo ad ascoltare il suono del fiume, sento che è vicino, ma non riesco a raggiungerlo, davanti a me un muro di roccia e dietro di me gli alberi caduti, troppo fitti per farmi passare. Cado sugli arbusti secchi con il peso dello zaino, mi taglio una gamba e urlo.

Continuo a girare in tondo finché non mi arrendo, trovo un piccolo punto piano e decido di piantare la tenda e passare lì il resto della giornata e la notte. Raziono il cibo per passare il tempo. Ne avrei abbastanza per cinque giorni al massimo, stessa cosa con il gas, una bomboletta e mezzo. Medico la ferita. Prima di addormentarmi, mi rannicchio dentro il sacco a pelo, tirando la zip fin sopra la testa. Inizio a cantare una vecchia canzone, che avevo sentito cantare da una madre alla sua bambina, la notte prima di lasciare l’Italia. Penso alla morte, piango nella notte per le persone che amo e che dovrò lasciare addolorate. Gli chiedo scusa. Per me, non ho paura.

Mi sveglio con gli occhi incrostati, sento un rumore provenire dalla boscaglia. Forse, se tagliassi ogni singolo ramo con il coltellino, riuscirei ad uscire da questo pasticcio, ma ci vorrebbero troppi giorni e morirei di fame. Strano come il mio cervello possa pensare così velocemente mentre il cuore batte calmo. Il rumore è sempre più vicino, un animale o forse una persona. Inizio a urlare e poi, davanti a me, come un fantasma, compare un uomo anziano a cavallo. Mi guarda, ma è come se fosse cieco, il suo sguardo è altrove. Il cavallo è color nocciola e ha i capelli bianchi. Molti maglioni addosso, i pantaloni come se indossasse una pecora sulle gambe e un machete nella mano sinistra.
Mi mostra la via, con la mano in cui non tiene le redini, e se ne va.

Faccio lo zaino ancora una volta, come una mattina normale, in modo militare; il sacco a pelo per primo, le cose per cucinare a destra, quelle per lavarmi a sinistra. Prima di rimettermi in cammino tiro fuori il mio quaderno, e a lettere molto piccole, senza consumare lo spazio prezioso sulla carta, scrivo:
numero due, mai attraversare il fiume con gli scarponi
numero tre, mai guardarsi indietro

numero quattro, quando ti perdi,
c’è sempre una via di fuga.

_____
foto:
1. Paesaggio della Patagonia cilena, verso il Parque Nacional Queulat.
2. Ricardo, attivista del movimento Puelo Sin Torres, con la sua gatta in un giorno di pioggia.
3. Occhio di cavallo di un gaucho nella Valle di Cochamò.

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020.

Maria Elena Adorni de Silva

Maria Elena Adorni de Silva

Fotogiornalista e antropologa, vive e lavora in Cile. Nel 2017 intraprende un viaggio attraverso la Patagonia cilena in solitaria. Era alla ricerca di sé stessa, ma si è trovata attraverso l’altro, documentando, lavorando e vivendo in prima persona la realtà rurale in uno dei luoghi più remoti al mondo.


Il mio blog | Altitudini è una piattaforma orizzontale e democratica, in cui tutti, a prescindere dalle capacità atletiche ed esperienze più o meno avanzate in montagna, possono esprimere il proprio senso di connessione con un luogo dell’anima. Una realtà fresca e importante nel panorama letterario italiano, in cui si possono scoprire storie nascoste. Altitudini.it è la mia rivista digitale.
Link al blog

1 commenti:

  1. Luca ha detto:

    E’ un bel racconto anche se triste e duro, ma forse il bello è proprio questo.
    Condivido tanto il punto Uno: ogni azione ha un conseguenza ed ancora di più il Punto Tre: mai guardarsi indietro.
    Secondo me, è molto pericoloso guardarsi indietro perchè se le cose che uno fa, lo sono in buona fede, attardarsi sul passato può essere terribile ed è un esercizio inutile che non porta a nulla di buono. Purtroppo, a volte o spesso, uno cade in questo errore e sono dolori; almeno per me è così.

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