Reportage

#7 IL GIOCO DELL’INFANZIA

testo e foto di Massimo Malpezzi  / Catania

Malpe bambino
05/11/2020
7 min
Il Bando del BC20

Il gioco dell'Infanzia

di Massimo Malpezzi

Il rifugio si era svuotato da ore, come era normale che fosse. Dalla finestra vedevo passare ancora qualche escursionista ritardatario, una coppia di alpinisti con gli zaini pieni e la corda che sbucava.

Quanta invidia provavo nel guardarli, loro avrebbero superato bosco Giulia.
La mia giornata iniziava all’insegna del gioco spensierato. Il perimetro che mi era concesso non era eccessivo ma era sufficiente per le mie esplorazioni, che si limitavano al piccolo piazzale con la sua grande quercia, ma soprattutto al monumento dell’Alpino, posto pochi metri sotto il rifugio. Era la mia personale palestra di roccia: l’Alpino imponente, dal colore bronzo scuro con il suo fucile a baionetta, l’elmetto e il cinturone a stringergli la pesante uniforme sui fianchi, con il braccio alzato verso l’ignoto, mi avrebbe fatto passare qualche ora divertendomi.

La scultura era saldamente poggiata a un basamento alto un paio di metri, fatto di grandi sassi grossolanamente incastrati l’uno con l’altro, che lasciavano discreti buchi e fessure ideali come appigli e appoggi. La “vedetta” sembrava non far caso alle mie intenzioni. Dapprima traversavo di lato in lato fino a chiudere la circonferenza del basamento; con attenzione cercavo di aggrapparmi agli appigli più grandi badando a dove mettere i piedi. Un po’ di tecnica era necessaria: anche se ancora molto piccolo mi sforzavo di arrampicarmi il meglio possibile. Allungai la mano sul polpaccio dell’Alpino ristabilendomi, e una volta seduto ai suoi piedi mi godevo la mia piccola impresa, come se fossi in cima a una vera montagna. Guardando la vallata si vedeva bene la parete nord del Corno del Nibbio, famosa palestra di roccia scura e strapiombante.

Mentre mi godevo il paesaggio non avevo considerato la discesa.

Si dice che un alpinista deve saper scendere con mani e piedi da dove è salito. L’operazione non fu semplice e quando toccai di nuovo terra fui contento di non essermi rotto la testa.

Le giornate erano ancora lunghe. Non era certo sufficiente la piccola arrampicata sull’Alpino per soddisfare il mio desiderio. Dietro al rifugio si snodava il largo sentiero acciottolato che tagliava a metà l’affascinante bosco Giulia: fitto, misterioso, delimitava il confine proibito oltre al quale mi era precluso avventurarmi. Per la verità qualche esplorazione l’avevo fatta, ma si trattava di piccole scorribande a caccia di bei bastoni da scorticare con il coltellino, o alla ricerca di pigne. Sapevo che lassù, oltre il limitare del bosco, si apriva la vera avventura e la curiosità era grande.

Fu così che la mattina di una domenica di maggio non mi accontentai più di scalare la vedetta alpina. Con la scusa della calura, mi feci dare una bottiglietta d’acqua da Adelia e senza svelare le mie reali intenzioni, m’incamminai verso l’ignoto.

Il sentiero, dopo alcuni tornanti, arrivò al limite degli alberi. Quando sbucai la delusione fu grande: si apriva davanti ai miei occhi un terreno brullo fatto di sassi, prati ripidi e rinsecchiti ancora dall’inverno. La nebbia, fittissima, andava e veniva, accompagnata da folate di vento fastidioso che gelava il mio corpo sudato.

Aguglia, 1978, via Manolo

Una ragnatela di percorsi, tracce e scorciatoie aveva smembrato il grande dosso, chiamato cresta Cermenati, vale a dire la via normale alla vetta della Grigna, che faceva da spartiacque tra il profondo e repulsivo canalone Caimi e l’altro più famoso canalone Porta; il quale sale ripidissimo fino alla base dell’obelisco chiamato Sigaro Dones. Mi fermai un attimo, sembrava che la mia curiosità si fosse placata. Sarebbe stato sufficiente fare dietro front, subito, adesso, e mai nessuno, tantomeno Ezio, si sarebbe accorto della marachella. Ma ormai era impossibile ritornare, volgendo lo sguardo trecento metri più in alto ebbi l’impressione che quel profilo tondeggiante fosse la cima. Un’illusione. Mi dissi che ero io piccolino: tutto è proporzionato alla propria statura, ecco perché la vetta mi appariva così lontana. Ripresi a camminare. Il sentiero mi costringeva a fare passi faticosi inerpicandomi sulla ripida traccia. Scivolavo e arrancando mi aiutavo con le mani, e ogni tanto guardavo su cercando la mia prossima meta, un altro dosso rotondo e ancora un altro, e un altro ancora.

Non volevo guardare indietro. La nebbia aveva risucchiato la valle, il cielo era cupo, sentivo le particelle umide posarsi sui miei vestiti leggeri; lottavo ormai con la fatica e la paura. Tutte le volte che il dubbio si insinuava sulla scelta fatta, riguardavo in alto e mi dicevo che non sarebbe mancato molto. Ma a che cosa?

Ho letto molte storie che raccontavano di spedizioni e di fatiche immani per raggiungere la cima di una montagna. Storie di grandi alpinisti. Ho sempre creduto che ognuno viva il proprio limite e la propria avventura alla pari di chiunque altro: che differenza c’era tra quella mia montagna e chi stava conquistando l’Everest?

A metà pomeriggio giunsi al colle poco sotto la vetta. Dall’altra parte un canalone ripido e pauroso precipitava verso nord, c’erano ancora rigole di neve dura. Mi accorsi di alcune catene fisse di ferro che rendevano più agevole e sicura la salita, indicando la giusta direzione. Il terreno si era fatto molto più rischioso, roccette di secondo grado mi si pararono davanti e allora mi venne in mente il basamento dell’Alpino; così, mani e piedi, presero il ritmo, applicai la mia esperienza tecnica e poco dopo mi trovai in cima alla Grignetta.

In piedi, impaurito, infreddolito e affamato feci un giro in tondo su me stesso. Capii che cosa voleva dire essere in cima, significava non avere null’altro intorno. Sopra di me c’erano alcuni grossi corvi neri che gracchiavano, pronti a portar via le briciole dei pasti degli escursionisti in vetta. Ben saldo sulle rocce con l’igloo del bivacco vicino, ero terrorizzato. Pensavo a quelle roccette da ripercorrere in discesa e pensavo che se mi fossi perso nella nebbia sarebbe stato un grosso guaio. Pensavo che avevo fatto una stupidata.

Ma quella era la mia prima cima e ne era valsa la pena. Una sensazione che provai spesso in futuro trovandomi in difficoltà, quando si faceva buio, quando il temporale rizzava i capelli per l’elettricità, quando solo il bivacco in attesa del mattino obbligava alla sosta.

Mi si avvicinò un uomo, e incuriosito mi chiese con chi ero.

«Sono solo, signore. Ho camminato fin qua senza sapere bene dove stavo andando».

Non era vero. Sapevo benissimo dove stavo andando, ed ero consapevole di quella mia scelta. Lui mi sorrise e mi mise indosso un’ampia giacca verde scuro, pesava ma sentii immediatamente il calore diffondersi su tutto il mio corpo, e poi mi diede un panino con il taleggio che divorai. Appoggiò lì vicino la borraccia con del tè bollente che mi diede energia per ridiscendere a valle.

Il più anziano di quel gruppetto di alpinisti (erano arrivati dalla cresta Segantini) mi legò in vita una corda. Dio mio, eravamo in cordata!

Grignetta, 1976, Gruppo dei Magnaghi

Quindi lentamente iniziammo a scendere arrampicando fino a giungere nuovamente al colle. Da lì le difficoltà scemavano; rimasi però in mezzo al gruppo, protetto. L’anziano ogni tanto si girava e mi diceva: «Ueeeeeee, bagaj, cume la va?».
«Bene, signore, bene. Quanto manca?»

Verso sera il bosco Giulia riabbracciò quel bambino indisciplinato. Castani, pini e faggi oscuravano il sentiero. La mano forte del mio soccorritore aprì la porta del rifugio. Conoscevano bene Ezio, lui era lì ad aspettarmi preoccupato: «Era su in vetta, ’sto pischello, fortunato a trovarci». Mi presi una pedata.

Adelia, avvoltomi in un grande golf di lana pungente, mi portò nella sala del bar e mi fece bere un cappuccino bollente accompagnato da una fetta di torta. Pochi minuti dopo giunse anche il Franchini.

Fu così che quelle mie spensierate piccole vacanze domenicali finirono.
Penso che il coraggio e la paura insieme debbano far parte del bagaglio di un alpinista. Il pensiero di quell’avventura è la prova che tutto è possibile, ognuno di noi ha un suo bosco Giulia da superare. L’incognita è il motore che spinge mente, corpo e cuore a osare, ma guai agire senza il buon senso.

In futuro, le adorate montagne sono state spesso la mia salvezza, ma non le ho mai sfruttate con ipocrisia, mai le ho sfidate, non ho mai avuto un rapporto battagliero con loro e tante volte non sono neppure partito.

Ho sempre cercato il confronto leale, a volte anche incosciente alla ricerca del mio essere, e di come avrebbero reagito la mia mente e il mio corpo.

La retorica non mi appartiene, ma davvero la montagna mi ha fatto crescere nella vita: lassù non si può barare e al colle, poco sotto la cima della Grignetta, ancora bambino, presi la decisione di scalare le sue roccette  perché avevo la grande occasione di sapere come avrei reagito compiendo quell’azione pericolosa.

In castigo per molto tempo non vidi più il rifugio Porta con il suo fitto e misterioso bosco Giulia, la grande quercia, l’Alpino di bronzo e le sue rocce.  Lo riattraversai solo cinque anni dopo, già ragazzino, fiero e pieno di aspettative appena iscritto al corso di Alpinismo della Parravicini di Milano. Passai accanto alla finestra del locale dove da bambino facevo colazione vicino al camino qualche anno prima. Mi fermai con la scusa di sistemare meglio il mio zaino e curiosai dentro alla ricerca del viso di quel bambino, rispecchiandomi lo vidi sorridere un po’ invidioso del fatto che avessi la corda sulle spalle ben arrotolata diretto verso i Magnaghi per scalare lo spigolo Dorm. Ero con il mio istruttore e di anni ne avevo 17, fu l’inizio. Dopo molto tempo e tante scalate sulle Alpi, ricordo il giorno come se fosse oggi.

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foto:
1. Malpe bambino
2. Aguglia, 1978, via Manolo
3.Grignetta, 1976, Gruppo dei Magnaghi

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Massimo Malpezzi

Massimo Malpezzi

Ho vissuto la montagna per 40 anni in maniera totale, ne ho raccolto i ricordi in un manoscritto prezioso. Oggi vivo in Sicilia e continuo a camminare e a esplorare, nulla di più... dite che è poco?


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