Indossa gli scarponi pesanti, di quelli con cui puoi lasciare a buon diritto le tue impronte sulla terra, i pantaloni antitaglio tenuti su con le bretelle, di solito una polo stretta sui bicipiti, non le camicie a quadri come gli altri. Resto sempre colpito dall’impressione di forza che dà, dalla grazia con cui la mette in pratica, mi fa pensare a certe canzoni di un gruppo punk, uno di quelli che non va per la maggiore. Non si è mai sposato, non ha messo su famiglia, vive con la madre. In primavera si è preso il Covid, l’ha passato anche a lei, mentre me lo racconta ha la voce rotta dal dispiacere di aver messo involontariamente a rischio la vita di chi gli ha dato la sua. La sua montagna di neve lui la tiene all’ombra. La cosa più strabiliante che so sul suo conto è che è goloso di dolci. Quando passa qui al rifugio, in pausa pranzo, prende poi sempre una fetta di strudel o di torta al grano saraceno. A casa se li fa lui, i dolci, impasta e inforna a tutto spiano, mi chiedo sempre come faccia con quelle mani.
L’altro giorno ero in giro per il bosco e sono passato a trovarlo. Stava affilando la catena della motosega e io mi sono fatto spiegare come si deve passare la lima. Siamo rimasti a parlare una mezz’oretta buona, lui continuava a lavorare, non smette mai, non ha tempo da perdere, sembra consistere tutto e solo in quello che fa: abbattere, tagliare, azionare il verricello, spostare i tronchi con la pinza montata sul braccio della ruspa, accatastarli in buon ordine. Mi sono scoperto a pensare che non avrebbe potuto fare altro che questo, nella vita, sembra uno di loro, un albero anche lui. Nessuna possibilità ulteriore, nessuna scelta alternativa, la sua persuasione è il sudore in cui dissipa la sua energia. Poi si è alzato, ha avviato la motosega, si è accanito contro un tronco enorme con la consueta gentilezza, e io mi sono sentito un po’ in colpa perché la sua stanchezza, il mal di schiena che lo accompagna quando a fine giornata sale in furgone, la testa svuotata dalla fatica quotidiana, tutte queste cose e i pensieri che la solitudine si incaponisce a sbattergli in faccia, ecco, in me si traducono in retorica, in vuoto e vano tentativo di capire un’esistenza che non è la mia.
C’era sì il Luca, per qualche settimana, che gli dava una mano, mi dice quando gli chiedo se non sia il caso di prendere qualcuno per aiutarlo in un lavoro così pesante, ma ha smesso perché sua madre aveva paura che si facesse male e lui non voleva essere la causa della sua preoccupazione. Luca, con quella timidezza che in paesi come questi è una rivincita, il salvacondotto degli introversi per riconoscersi tra di loro, e sottrarsi alla diffidenza con cui gli abitanti di qui guardano naturalmente ai chiacchieroni, a quelli troppo sicuri di sé. Luca che dà sempre una mano a chiunque, perché nel garage ha la falciatrice, un trattore ben più vecchio di lui, una miriade di attrezzi da cui si allontana in sella al suo trial per infilarsi in un sentiero.
Al bosco è capitato in una notte quello che al paese è successo negli ultimi trent’anni. In tanti se ne sono andati, sradicati dal progresso. Lo spopolamento è un uragano altrettanto micidiale, solo che avviene al rallentatore, provocando una calamità antropologica le cui proporzioni sono difficili da stimare e i cui effetti si propagano stancamente, nel tempo e nello spazio, come onde sismiche. Quello che ha fatto un giro di vento, la forza con cui la tempesta si è accanita sui rami, lo ha fatto lo sviluppo sulle braccia dei più giovani, travolgendone i destini e inchiodandoli alle presse, ai torni, alle scrivanie, agli sportelli. Non è stata solo la comodità, ci si è messa la mancanza di una prospettiva concreta. E l’illusione di un’emancipazione fasulla che ha tramato in maniera subdola, con le seduzioni a buon mercato delle luci della città e i ricatti belli e buoni del mercato del lavoro.
La sirena ha cantato e ora continua a scandire la fine e l’inizio dei turni. La metafora è di quelle scontate, è abusata e ovvia. Però è davvero andata così: c’è un parallelismo evidente tra la tabula rasa con cui Vaia ha messo fine all’ottobre del 2018 e il disboscamento della comunità che a fianco di quegli stessi alberi oggi prostrati ci viveva da secoli. Una corrispondenza simbolica che urta l’anima. Il tempo provoca sempre un mutamento, ma certi mutamenti sono così lenti che non ce ne accorgiamo nemmeno. Un processo nascosto, inesorabile, fatale. Ci sei in mezzo, tutto sembra andare come al solito, non ci fai caso fino a quando non ti svegli e scopri di aver perso per strada le condizioni minime per non stare lì a sopravvivere soltanto. E decidi di lasciare il paese, sradicandoti seppure a malincuore.