Meno male che per un po’ mi accompagna un francese e, quando lui se ne va, mi fa compagnia un’enorme luna piena, che illumina a giorno l’anfiteatro innevato dove salgo nel silenzio assoluto di una notte di montagna. Sarebbe un momento magico, se non fosse un momento quasi tragico: ho un sonno tremendo, mi si chiudono gli occhi. All’idea di addormentarmi qui, a non-so-quanti-gradi sotto zero, ho semplicemente paura di morire. A forza di farmi coraggio, di mordermi le dita e di spalmarmi neve sulla faccia, arrivo al rifugio in cima alla salita: dentro c’è un caldo tropicale e i gestori mi accompagnano in una stanzetta dove la paura si scioglie e mi concedo 20 minuti di black out assoluto.
Quando riapro gli occhi sono pronto per mangiare qualcosa e godermi finalmente lo spettacolo che mi aspetta fuori: in un silenzio di cristallo la notte inizia a scolorarsi ritagliando sull’orizzonte centinaia di swiss peaks. Un minuto di pace assoluta e poi via, a lasciare che le gambe si godano la discesa senza un solo pensiero ad infastidirle. Al ristoro di Evolene, anche se non c’è niente che assomigli a brioche e cappuccino, è ora di fare colazione
A quello di Chemenille, 800 metri più in alto, un’insalata di patate e maionese e una intervista alla TV della gara fanno da ricreazione prima degli altri 600 metri che mi separano dalla fine della salita. Poi la scena se la prende la maestosa diga Grande Dixence: prima come sfondo lontano alle foto scattate dal passo, poi come meta agognata da raggiungere risalendo una lunga valle placida che si impenna poco prima della base vita, posta ai suoi piedi. Arrivato lì, mangio molto, dormo poco, e riparto.
Superata la diga e lasciato alle spalle lo spettacolo del Lac des Dix e di tutti i ghiacciai che lo circondano, la gara si infila in una valletta popolata di stambecchi, per poi riposarsi un attimo sull’incredibile spianata figlia della cava da cui hanno preso il materiale per la diga e, dopo un passo che per soli 15 metri mi toglie la soddisfazione di arrivare ai 3000, planare su un’interminabile pietraia coperta di neve, dove ogni passo richiede dieci volte l’attenzione e cinque volte il tempo di quelli fatti fino a qui. E c’è di peggio: terminata l’interminabile, mi ritrovo su un sentiero in costa, a strapiombo sul buio, cosparso di tratti innevati e di nuove pietraie, molto più piccole della precedente, ma con pietre molto più grandi. Altre due ore che friggono il cervello per l’attenzione a dove mettere i piedi, e un’ultima di discesa “normale” che frigge solo le gambe, mi portano finalmente al ristoro di Plampro.
Non è una base vita, quindi non c’è un posto caldo dove dormire, ma ho troppo sonno e dopo due piatti fumanti di raclette su letto di patate lesse, mi arrischio su una branda, avvolto nel telo termico di emergenza. Non è un piumino, ma tiene abbastanza caldo da farmi terminare con soddisfazione il microsonno da 15 minuti e permettermi di ripartire.
È diventato giovedì, credo, e devo salire un brutto e ripido sentiero nel bosco, accompagnato da uno svizzero con cui chiacchieriamo per farcelo passare. Finita la parte peggiore ricomincio ad avere un gran sonno, che prima cerco di combattere tenendo occupato il cervello a raccontare al mio compagno, in francese, la storia di Cappuccetto Rosso, e poi di assecondare con un altro microsonno da 10 minuti sdraiato sull’erba, con addosso il telo termico e a fianco lo svizzero a controllare che non mi congeli. Quando lui mi sveglia non ho freddo, ma gli occhi insistono per richiudersi, così lascio andare il mio angelo custode e dormo altri 10 minuti.
Al nuovo risveglio il cielo è già chiaro e dopo poco arrivo al rifugio Cabane de Mille, al cospetto di Sua Maestà Monte Bianco e di molti altri sovrani. Dentro mi fermo poco, perché lo spettacolo tutto intorno è di quelli da togliere il fiato, ancora di più alla luce del primo mattino. Peccato che non me lo goda per niente: ho un evidente principio di bronchite, che è sintomo infallibile del Covid. Quindi devo avvisare gli organizzatori, ritirarmi, tornare a casa in qualche modo e chiudermi in quarantena. Intorno a me è tutto così bello che mi viene da piangere al pensiero di doverlo lasciare e telefono a mia moglie per farmi consolare. Lei mi fa notare che dopo tre notti all’aperto, in montagna, e con la neve, un po’ di casini respiratori sono il minimo che potevo aspettarmi, quindi il famigerato Corona Virus probabilmente non c’entra nulla. È talmente convincente, che in fondo ai 1300 metri di discesa, che mi bevo pieno di rinnovato entusiasmo, mi è già passato tutto.