Ho trovato l’acqua
testo e foto di Paola Cosolo Marangon
«Stai attenta, abbi cura di te».
«E’ proprio per questo che faccio questo viaggio, per aver cura di me. Non dovessi rientrare là, nel cassetto del comodino, ho lasciato una lettera…».
«Non dire stronzate!».
«Non sono stronzate, so di partire ma come faccio a essere sicura di tornare? Cioè, io voglio tornare ma non so cosa trovo, la meta è incerta e gli incidenti possono arrivare».
«Dai, non può essere. Hai preparato tutto con cura, la guida è esperta, ho capito che l’incognita è grande ma parti solo se sei certa di quello che fai, no? No, voglio sentire discorsi idioti. La lettera… ma per piacere…».
Fa finta di nulla ma mi accorgo della lacrima che tenta di asciugare furtivamente. Le rimane un piccolo rigagnolo lucido come da traccia di pioggia su di un vetro.
Distoglie lo sguardo, ha paura ma vuol convincermi del contrario. La saluto con un buffetto sulla guancia, vorrei abbracciarla stretta e affondare il viso tra i cuoi capelli. Ha ancora l’odore di quando era bambina ma vado oltre.
Mi si stringe lo stomaco al solo pensiero di non vederla più.
Tutto è possibile e niente è impossibile.
Lo zaino è pronto, devo affrontare questa notte prima della partenza preparandomi psicologicamente. In realtà lo sto facendo da giorni. La squadra che mi accompagna è ben allenata, non si lascia nulla al caso a meno che il caso non ci si metta di traverso. Ieri mattina abbiamo fatto il punto della situazione, tutto è stato pensato, analizzato, calcolato: dovremmo essere tranquilli pur con una grande incognita davanti a noi.
Nessuno mi ha mai raccontato qualcosa di un’esperienza simile, certo che non sono la prima a provarci. Qualcuno è tornato ma ha fallito la meta, qualcuno forse ce l’ha fatta ma non ho avuto modo di conoscere dettagli e qualcuno si è perso. Molti si sono persi. Svaniti, evaporati.
Avevo voglia di congedarmi da alcune persone, un saluto nel caso che… poi no, mi sono detta, non sono discorsi da fare.
Si affronta la salita per raggiungere la cima e non si inizia il viaggio con l’idea di non fare ritorno. Così non ho salutato nessuno, ho parlato con pochissima gente di questo progetto vuoi per scaramanzia vuoi per pudore. Solo lei, mia figlia. Da lei si mi devo congedare e assicurarmi che venga fatto ciò che desidero in caso di… No, non diciamolo.
La notte trascorre tra risvegli repentini e sogni incrociati. Ogni tanto controllo di aver messo tutto, il moleskine, le matite – senza quelli non saprei resistere – gli occhiali di riserva.
Ho sognato di romperli scivolando, al risveglio li ho ritrovati intatti sul comodino.
Alle quattro di mattina una doccia bollente alternata a getti di acqua gelida ha cancellato gli incubi e i rimasugli di sonno. Mi infilo in macchina dopo aver sistemato lo zaino sul lato passeggeri. Non è lungo il tragitto per raggiungere il punto della partenza. La squadra mi aspetta, sorrisi, pacche sulle spalle, poi la preparazione.
Ho trovato l’acqua
LA PARTENZA
Per partire, per il lancio devo distendermi: le assi di acciaio sono dure e la superficie fredda. Non importa. Mi legano – e certo, lo sapevo, devo reggere l’impatto -.
«Pronta? Conta da 10 a zero».
Inizio il mio conto alla rovescia: 10, 9, 8, 7, 6, 5 e poi via, vengo trascinata dentro un vortice fortissimo, mi gira la testa e scivolo, scivolo dentro una sorta di imbuto scurissimo. Non sento odori, solo qualche remoto rumore metallico mi giunge alle orecchie mentre faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Avverto l’aria che spinge le palpebre contro le pupille, mi dico che devo resistere, la velocità diminuisce lentamente e mi trovo sbattuta a terra.
Mi brucia la gola, un odore di zolfo e di muschio mi tappano le narici. Sento freddo e a malapena riesco a muovermi. Ho sbattuto piuttosto violentemente a terra, cerco di rialzarmi tutta dolorante. La luce è fioca, lo zaino pesante ma mi faccio forza e procedo a carponi. Sotto le ginocchia avverto l’asperità del terreno: muschio, sassi, pietre acuminate, rovi. Faccio fatica a orientarmi, cerco nella tasca dei pantaloni la cartina dove ho tracciato la via ma non la trovo. Frugo nelle tasche inutilmente, è come se le mani non riuscissero a trovare la tasca, sono sfasata. Forse la cartina è scivolata fuori nell’impatto o è volata via durante la discesa.
Mi guardo in giro, chiamo a gran voce, cerco di farmi sentire. Deve esserci qualcuno della squadra, siamo partiti praticamente assieme, ma non ricevo risposta.
C’è della nebbiolina tutto attorno, come una bruma leggera che non capisci se arriva dal basso, dalla terra oppure dall’alto. No, riesco a distinguere forme, indosso gli occhiali ma nonostante questo è tutto lanuginoso, sfocato. Provo a sollevarmi, le ginocchia mi dolgono, faccio qualche passo con le braccia stese in avanti e procedo a tentoni, non riesco a capire se è notte o giorno, la luce è incerta allora accendo la pila frontale ma il fascio di luce cozza contro la nuvola; vedo minuscole goccioline ma non riesco a distinguere nessun sentiero, cerco di attivare il più possibile la saggezza che arriva dalla pianta dei piedi.
Mi sento perduta, chiamo con tutto il fiato che ho in corpo ma la voce rimbalza, torna indietro quasi a sbeffeggiarmi. Sapevo che sarebbe stato difficile ma non a questo livello.
Ho preparato tutto, il percorso era sufficientemente chiaro, perché mi trovo in questa situazione? Il viaggio è appena cominciato e io sono già così sconfortata? Cerco un po’ di lucidità.
Tento di riordinare le idee.
Il lancio, il sentiero doveva essere segnato e io dovevo riuscire a percorrerlo senza troppa difficoltà. Doveva esserci una guida per condurmi verso la meta in maniera il più possibile sicura. Cosa ho sbagliato? Cosa è andato storto?
Ieri la guida mi ha dato indicazioni molto precise: «Questa è la traccia, qui potrebbe esserci un ostacolo ma lo possiamo aggirare, l’acqua farà il resto. Basta lasciarsi trasportare dal fiume».
Ecco che cosa mi manca, il fiume. Ma quale fiume? Dove lo trovo? Devo essere più attenta, devo aguzzare la vista e aprire bene le orecchie, devo cercare il fiume.
Provo a fare piccoli passi, se procedo molto lentamente, con passetti ravvicinati non dovrei rischiare troppo. Il freddo si fa sentire, ho i brividi in tutto il corpo ma mi convinco che si tratta solo di paura. Devo andare avanti e cercare il fiume.
Rumori metallici, risucchi, sento le gambe pesanti e la testa vuota ma sto camminando. Non riesco a trovare appigli, è come semi trovassi in una landa desolata, non un albero, non una pianta, solo vegetazione molto bassa che non riesco a riconoscere. Forse sono mughi? O piante di mirtillo? O solo rododendri cono le foglioline coriacee. Vado alla cieca e voglio fidarmi del mio istinto. So che troverò quello che cerco.
Ad un tratto un fruscio e un rumore più definito, man mano che mi avvicino capisco che è acqua, attivo le antenne, non mi posso sbagliare. Procedo con maggior convinzione e coraggio e finalmente … Si! Ho trovato l’acqua.
Mi inginocchio sulle sponde, non è un vero fiume, è un ruscello gagliardo.
Ora la bruma si è alzata e riesco a distinguere le rocce ricoperte di muschio, i sassi, le piante acquatiche. Piccole gocce schizzano e assaporo la freschezza quando si posano sulle labbra. Mi siedo, sento una fitta sul lato destro del corpo, lo zaino pesa ma non riesco a sganciarlo. Vorrei bere ma ho paura di perdere l’equilibrio se mi chino in avanti, immergo le mani nell’acqua gelata, subito una sensazione strana mi avvolge, da un lato refrigerio dall’altro qualcosa mi attanaglia, avviluppa il mio braccio destro. Ritiro subito le mani, una forza potente mi stava trascinando giù. Resisto. Osservo con maggior attenzione i dintorni.
Sono io la tua realtà
Cascata di luce
LA FOGLIA
Su di una bella pietra come quelle che trovo sulle mie montagne – e sono ben consapevole di non essere sulle mie montagne – si è appoggiata una foglia. È gialla, piccole perle la impreziosiscono e mi trovo riflessa in quelle goccioline. Mi commuove tanta bellezza ma trovo strano il colore, è una foglia morta, giace riversa su sé stessa. Un brivido mi percorre.
Quanto tempo è trascorso da quando sono partita? Sono dentro la mia dimensione o no? Mi guardo le mani, sono le stesse, non sono invecchiata – mi dico. Non mi raccapezzo, provo a parlare alla foglia, a chiederle dove siamo e lei mi risponde calma con voce flebile.
«Siamo là dove dovevamo essere, tu prosegui sempre avanti, segui il fiume».
Una folata di vento e la foglia viene inghiottita dall’acqua, un mulinello se la porta mentre io procedo come in trance. Il dolore al braccio si fa più intenso, mi chiedo dove sia finita la mia squadra. La gola brucia, nuovamente nessun odore mentre il rumore del ruscello copre ogni cosa. Sembra che le gambe sappiano dove andare mentre la testa è confusa, la sento come piena di elio, viaggia per aria quasi staccata dal corpo.
UNA VOCE
Una voce roca, profonda, rude e quasi isterica buca il rumore dell’acqua:
«Sono qua! Sono io, la meta!».
Mi guardo attorno, non c’è nessuno, la nebbia avvolge nuovamente ogni cosa fatta eccezione per il ruscello sempre più vigoroso, sempre più ruggente.
«Chi sei? Dove sei?».
Non un animale, non un essere che possa emettere suono eppure continuo a sentirlo.
«Sono qua, dentro l’acqua».
Mi avvicino un po’ più alla riva, lo spumeggiare del flutto schizza per ogni dove, penso che quest’acqua sembra solida. Guardo i sassi, cerco qualcuno, qualcosa, ma invano. Eppure la voce esce dal ruscello.
«Sono io, davanti a te, mi vedi?».
L’unica cosa che vedo è un pezzo di tronco incagliato, nero, ritorto.
«Brava, sono proprio io. Mi vedi come sono grosso? Vedi come riesco a bloccare il flusso del ruscello? Posso vincere e vincerò. Sei venuta a conoscermi e mi hai trovato. Brava, complimenti, non è da tutti volermi incontrare. Mi riconosci ora?».
«Sei un brutto e viscido pezzo di legno, non hai nulla a che vedere con me. Il mio viaggio è tutta un’altra cosa, tu sei nessuno e non vincerai per nulla. Sparisci».
«Sono io la meta, ancora non l’hai capito? Guardati attorno, conosci qualcosa di quello che vedi? Cosa pensavi di trovare? Il paradiso in terra? Sono io la tua realtà, io quello che cerchi invano di distruggere ma come puoi notare ho radici sicure, posso bloccare il flusso quando voglio, non mi puoi rimuovere, sono qui per vincere».
Avverto sudori freddi, provo una sensazione strada, quell’orrido pezzo di legno che sta ostacolando il fluire dell’acqua mi appartiene. È dentro di me anche se io lo vedo lì fuori. Provo a chiudere gli occhi, ripercorro la strada, ho trovato il vuoto, la nebbia e devo andare da qualche parte ma non ricordo più dove. Questo mostro mi appartiene ma la meta non è lui, sta dicendo bugie. Mi guarda beffardo, si traveste, finge.
«Non puoi vincere perché siamo una cosa sola, non posso abbandonarti, non ce la farete a schiodarmi».
Devo reagire, sento le gambe molli, mi pare di profondare nelle sabbie mobili, la bocca è impastata non riesco a rispondere ma sono certa che la mia squadra mi troverà presto, verranno a salvarmi.
Il mostro si fa più grande, incombe e sembra sopraffarmi, un dolore lancinante mi squarcia il petto e perdo i sensi.
LA CASCATA DI LUCE
Non so per quanto tempo rimango da qualche parte, distesa con le braccia e le gambe rigide. Un forte odore di carne bruciata mi dà la nausea ma è grazie a quello che mi risveglio. È tutto buio, il fiume non c’è più Sono gelata ma viva, provo a rialzarmi e sento di avere addosso una sorta di poltiglia melmosa, guado le mie membra ma non riesco a definirle, come avessi un’espansione del corpo. Vorrei togliere lo zaino ma non riesco, mi dico che ho fatto lo stesso pensiero poco tempo fa… o era molto tempo fa? Attorno tutto è buio e melmoso, sento il fragore di una cascata e percepisco un lieve chiarore in fondo. Dove sono? Dentro una grotta, in una trincea, dentro un bunker? O sono in un buco nero?
Avanzo lentamente e il rumore si fa più deciso, inizio a distinguere nitidamente la cascata. L’azzurro intenso della sua acqua mi dona una gioia inaudita. È questa la meta? L’ho raggiunta? Sono arrivata? I miei occhi sono appagati da tanto colore turchese, via via il buio della grotta lascia spazio al colore. Una voce, lontana ma limpida:
«Respira!».
D’un tratto sento l’aria fresca entrare nei polmoni, gli occhi si riempiono dell’azzurro di un cielo limpido. La mia squadra è lì, sono tutti commossi accanto a me.
«Ce l’abbiamo fatta. L’intervento è riuscito alla grande. Abbiamo fatto fuori il bastardo».
Il chirurgo è sudato, i suoi occhi brillano e cercano l’approvazione della sua equipe. Tutto fa sperare che la meta sia vicina, non voglio chiudere con una virgola, ci metto il punto.
Bellissimo racconto. Racconto di sostegno, di aiuto. Profondamente umano. Scritto con la suspance che stimola la curiosità. Tutti noi percorriamo prima o poi un sentiero con alte cime, profondi baratri con la speranza, anzi certezza, che nulla sia impossibile
Grazie Alessandra, ci sono tanti 8000 nella vita di una persona e non necessariamente l’ossigeno c’è per tutti. Ti ringrazio per questo bel commento
Un racconto mozzafiato che ti entra nell anima e ti travolge. È la vita che viene descritta in modo insolito ma affascinante
Grazie Michela, la vita ci sorprende più di ogni altra cosa, basta guardarla mettersi in ascolto e non spaventarsi, la vita è tutta una salita al Monte Analogo
Ho riconosciuto passaggi di un paio di mie “avventure”: l’importante, in questo caso, è partire convinti di tornare e avere estrema fiducia nella “squadra”!
E’ proprio così, fiducia nella squadra e fiducia in sè stessi