Il quarto ometto. Arrivò il 1982 con il suo inverno in cui non nevicava mai, c’erano le condizioni per un progetto: la prima ripetizione invernale della via Pollazzon-Rudatis alla Torre di Valgrande. Ce l’aveva instillato Paolo, avendo avuto l’imbeccata da Oscar Kelemina, suo vicino nella casa di vacanza a Mareson. Sì, sì, proprio lui, l’autore della “mitica” guida del Civetta. Un’impresa? Per noi lo sarebbe stata. Una prima ripetizione invernale? Per una volta si sognava in “grande”. Iniziammo ad allenarci con la forza dell’entusiasmo e cercando consigli di alpinisti esperti, come l’amico Giancarlo Milan. La scalata ci riuscì nei primi giorni di febbraio, quattro giorni che per noi furono vera avventura.
Nei mesi successivi una frase irruppe nei nostri discorsi “questo è l’anno dello spigolo nord”, a pronunciarlo fu ancora Paolo. Superfluo dire che lo spigolo citato era quello dell’Agner, da salire per la via Gilberti-Soravito, una delle più lunghe, anzi, la più lunga delle Dolomiti, una delle più ambite, per la dirittura, l’esposizione, la logicità, caratteristiche che fanno diventare una salita una grande “classica”. Paolo si era accorto che la sua idea non aveva acceso in me euforie, la ritenevo troppo lunga per noi che solitamente facevamo vie non oltre gli ottocento metri e quella era giusto il doppio. Seguirono accese discussioni, io restavo della mia idea, contrariato dal fatto che Stefano, con il quale arrampicavo da tre anni, si fosse fatto convincere da Paolo.
Dopo l’invernale avevo sofferto per un congelamento ai polpastrelli delle dita di una mano, avevo perso non solo strati di pelle, ma anche “gradi mentali” e non mi sentivo di arrampicare da capocordata. Stefano mi garantiva di essere in forma, l’avrebbe tirata tutta lui da primo. E poi… davanti ci sarebbe stato Paolo, assieme a Daniele… Le difficoltà tecniche erano alla nostra portata… Alla peggio si sarebbe fatto un bivacco in parete… Anche alla Pollazzon-Rudatis c’erano stati dubbi che poi avevamo superato… Che altro mi dissero per convincermi? Del resto io ogni tanto ripensavo a quella prua che si conficcava nell’azzurro del cielo… Mi arresi e, quell’anno, in agosto, Agner fu.
Il quinto ometto. Ci vollero tre giorni per venirne a capo, ma quante cose imparai dal Maestro di pietra? Emozione alla vista del bivacco Cozzolino, minuscolo, ai piedi di quella parete che pareva non finire, ci sovrastava fisicamente. Al bivacco si percepiva la tensione della vigilia, io avevo sperimentato la tecnica del “domattina potrebbe piovere”, mentre Daniele accese uno strano sigarino, e ripostolo in un astuccio, se lo pose sullo stomaco… La mattina seguente alle sei e venti eravamo ai piedi dello zoccolo, iniziammo e tutte le manovre erano da fare in fretta. Seguiva una parte facile che ci avvicinava alla parete, qualche passaggio un po’ difficile, ma niente di che. Non eravamo abituati a quei ritmi e ad un certo punto Stefano mi chiese il cambio. Accettai di malavoglia, faticai su difficoltà che non arrivavano al quarto grado, non avevo la testa per fare il capocordata e in sosta gli dissi che se non se la sentiva di tirarla tutta avevamo il tempo per scendere.
Paolo intanto procedeva ed era meglio non perdere contatto. Ci riprendemmo da quel piccolo impiccio mentale e continuammo ad arrampicare. Sapevamo che la parte difficile era in alto, ma non ci spaventava, era solo quel continuo arrampicare cui non eravamo abituati che creava un certo disorientamento. Intanto l’acqua calava nell’unica borraccia a testa, ma avevamo preferito mettere nello zaino il sacco piuma. Che errore! Oramai in alto, una sosta con i chiodi posti due spanne dal ripiano di un terrazzino, mi suggerì di fare sicurezza sdraiato, non ero stanco, ma la posizione mi rilassava i muscoli. Eccoci al terrazzino esposto sotto il tratto di 5°+, che spettacolo la vista della valle sotto, era pomeriggio, ma bisognava pensare solo ad arrampicare. Poi … vidi Stefano faticare, provare varie soluzioni per superare uno strapiombo, riprovare, poi girarsi verso di me: “non ce la faccio…”. Non ci pensai un attimo e urlai a Paolo e Daniele, che non erano visibili, di tornare indietro per aiutarci.
Dopo un po’ apparve Paolo e, capita la situazione, allungò il capo di una corda e Stefano uscì dallo strapiombo. Riprendemmo di buona lena, sapevamo di un passaggio di 6°-, ma ci sembrò meno difficile del 5°+ precedente, era delicato, forse ci era bastato …trattenere il respiro per superarlo. La parete sopra era dritta ancora, ma terminava su di uno spigolo con pendenza decisamente inferiore. Fece morale. Ci eravamo portati le staffe, per prudenza, e in quegli ultimi tiri non badammo troppo allo stile, ma a fare in fretta perché l’avvicinarsi del tramonto aveva iniziato a colorare di rosso la parete. All’ultimo tiro prima di uscire sullo spigolo appoggiato, ogni due chiodi trovavo una staffa lasciata, così uscii sullo spigolo a mo’ di omino Michelin, addobbato di staffe e di cordini.
Cominciava a fare sera, rimanevano 150 metri di 2° e 3°, dovevamo fare più in fretta del buio, le corde non servirono e i miei “gradi mentali” forse si erano ricomposti. Arrivammo alle 21:20 al sentiero di discesa, il buio era stato più veloce di noi, perdemmo la traccia, tornammo sui nostri passi, guardammo meglio e arrivammo al bivacco Biasin. Erano le dieci della sera, l’acqua l’avevamo finita nel pomeriggio. Avevamo salito lo spigolo nord dell’Agner, ma il pensiero non ci sfiorò, obnubilati dalla sete. Stefano si mise a mangiare, io non lo feci per paura che mi aumentasse la sete, così Paolo e Daniele. In piena notte ci ritrovammo, io e Paolo, ad aprire la metà superiore della porta del bivacco per poter inspirare l’aria umida della notte, palliativo alla sete. Ma non ci furono alternative a quella sofferenza.