Racconto

#41
IL SENSO DI STELLE CHE HO DENTRO

Angelina, Giacoma e Anna guardavano ognuna nella propria direzione immaginando l’avventura che le attendeva.

testo di Alessandra Cella, foto di Archivio della Società Alpina Friulana  / Valdellatorr (TO)

16/01/2022
6 min
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Il senso di stelle che ho dentro

di Alessandra Cella

Angelina, Giacoma e Anna guardavano ognuna nella propria direzione immaginando l’avventura che le attendeva.

Guglie indivisibili per orogenesi e istinto, erano incapaci di stare lontane.
Sopracciglia aggrottate, una mano sul fianco e l’altra che impugnava un bastone con la fermezza di chi annusa nell’aria l’odore della libertà. Era il 20 agosto del 1879 e le tre sorelle Grassi, con le loro gonne ampie, i corsetti al petto e i cappelli bianchi come bucaneve, stavano di fronte al rifugio di Sella Nevea. Volevano raggiungere la punta del Sernio sfidando i loro colleghi alpinisti.

Il ricovero era stato appena costruito e nella sua placida conca incastonata tra due monti accoglieva il sogno di una grande impresa. Quel pomeriggio il cielo in altura era minaccioso e plumbeo come l’umore di Anna. Le era giunta voce che alcune malelingue dicessero in giro che se volevano tentare l’ascesa era solo per nascondere l’imbarazzo dell’essere ancora zitelle. Come se stare da sole fosse poi una vergogna e non già una scelta possibile!

Giacoma guardava le nuvole distrattamente e un pensiero andava a Giovanni, che le aveva portate in montagna per la prima volta a dimostrazione che anche il corpo femminile era in grado, allenandosi con disciplina, di sopportare gli sforzi prolungati in quota.

Era caparbio, Giovanni Marinelli. Studiava geografia con abnegazione e sebbene avesse abbandonato gli studi in giurisprudenza, non era uomo da sentire il peso del fallimento. Le cadute e i cambi di percorso formano la persona, diceva.

L’Avvocato Grassi, padre delle tre ragazze, aveva appoggiato le figlie senza riserve nel primo progetto, quello della salita al Monte Canino, nonostante non fosse esattamente cosa da donne come molti credevano. A Grassi, però, il giudizio degli altri importava soltanto in tribunale.
Le sorelle avevano intenzione di toccare la cima inviolata del gigante roccioso senza andare al traino degli uomini e proprio quel pomeriggio si sarebbero decise le sorti del viaggio imminente.

Angelina si sedette sul prato, pensierosa.

Ultimamente il ricordo della madre si era fatto pungente come il biancospino con cui ricopriva la sua culla per allontanare gli spiriti malevoli. Quando la donna si spense, Angelina stava timidamente trasformandosi da crisalide a farfalla e si sentì ricacciare dentro il bozzolo con violenza. Troppo poco biancospino intorno a noi, aveva pensato da quel giorno in avanti.

Giovanni arrivò trafelato, con una risma incerta di fogli sotto il braccio e una borsa a tracolla, logora e gonfia di materiale. Anna e Giacoma discutevano con fervore della scalata al Monte Bianco di Henriette D’Angeville alla quale guardavano con ammirazione, Angelina alzò la mano in segno di saluto così Giovanni prese ad intonare a voce spiegata “Chjalait, chjalait, ce robis. Seso sors?”[1] scatenando ilarità. Eccolo, lo stagnino del canto popolare che si annunciava con foga, mentre il sole incerto del giorno gli si rifletteva sugli occhiali tondi corrugandogli la fronte.

«Finalmente, il Marinelli!» esordì Giacoma simulando un inchino.
«Buongiorno a voi! Che ne direste se vi esponessi le mie considerazioni di stanotte cantando? Così, per placare l’agitazione!» ribatté Giovanni con ironia mostrando loro tutto quello che aveva portato.
«Domani si deve partire da forca Nuviernulis per poi attraversare il sentiero ardito con i passaggi su roccia. Guardale, non stanno più nella pelle! Anna ha disegnato tutta la notte». Angelina tese la mano a Giovanni perché la aiutasse ad alzarsi, intorpidita com’era nel gesto.

Anna si avviò con piglio deciso verso il tavolaccio di legno su cui batté due colpi per richiamare l’attenzione del gruppo.
Mostrò alcuni suoi schizzi che le ritraevano in cammino e in tenuta rigorosamente maschile.

«Se il Sernio è un monte impossibile per gli uomini, allora saranno tre donne a conquistarlo! Atu voe di viodi?[2]» disse Anna con il fuoco negli occhi.

“Le sorelle avevano intenzione di toccare la cima inviolata del gigante roccioso senza andare al traino degli uomini.“

Le sorelle Angelina, Giacoma e Anna Grassi, le forti alpiniste tolmezzine vissute a cavallo tra Ottocento e Novecento

«Pare che ci siano molti passaggi difficili». Giovanni era concentrato a percorrere con l’indice il profilo del sentiero sulla mappa «e che il tempo previsto per l’arrivo si aggiri intorno alle sei ore. Credo però che con il giusto equipaggiamento potreste impiegarci di meno, con buona pace dei membri del circolo. Mi aspetto che trasaliscano di gioia!».

Giacoma imbracciò una vigorosa dissertazione su come il mondo maschile considerasse la montagna una sua proprietà, Anna e Giovanni indagavano il cielo per prevederne le intenzioni mentre la sera calava insieme allo slancio della vigilia.

Le passioni possono essere così estenuanti, pensò Angelina in bilico sull’eco di un presentimento. Si sentiva in preda a un senso di stelle, come se l’Universo stesse danzando e lei non potesse tenere l’equilibrio.

Al rifugio scese la notte.

Anna e Giacoma scivolarono in un sonno profondo accompagnato dalle voci del bosco, mentre Angelina guardava fuori dalla finestra. Erano le stelle di agosto a parlarle, quelle che mettevano a nudo ogni minuscolo intralcio interiore. Dalla salita al Canino qualcosa in lei era cambiato, nessuno se n’era accorto perché Angelina era come un’achillea appartata in una distesa di anemoni.

La montagna si era conquistata uno spazio inscalfibile nelle loro vite, osservarne il profilo da dietro un vetro permetteva di prendere la giusta distanza per subirne la fascinazione ma anche per ripensarla.

La montagna voleva tutto e da lei ancora di più.
Ricordava nitidamente un momento in particolare, Angelina.
Durante una delle prime uscite inciampò sopra un ometto di pietre e solo il sasso in punta alla piramide rotolò e rimbalzò fino a dove non si vedeva più.
Una vertigine la colse, non per la paura di cadere ma perché l’incidente le apparve da subito pieno di significati.

Anna e Giacoma avevano intrapreso un cammino di vita, le vedeva fermarsi spesso come due marmotte ad osservare l’orizzonte con lo sguardo dritto come la loro volontà. Lunghi e ripidi pendii accrescevano in loro la voglia di fare meglio e di più. E di arrivare a farlo da sole.

Angelina nuotava in salita.
Si sarebbe trattenuta ad accarezzare le balze erbose come un tricottero solitario in una pozza d’acqua tiepida, ma le sembrava che non ci fosse tempo a sufficienza per stare. Bisogna andare, la sollecitava Anna dal fulgente versante orientale del Canin che pareva la luna.

Il giorno di quella memorabile traversata di due anni prima non fu senza imprevisti, venti ore di cammino che richiesero spirito di adattamento e allegrezza. Anna e Giacoma sapevano che era solo l’inizio, si davano qualche spallata bonaria con Giovanni e tra di loro. Sembravano dei bambini sul punto di litigare che poi scoppiano a ridere all’improvviso.

Le sue sorelle, così piene di temperamento!
Angelina restava un po’ indietro a guardarle, ispirata. Loro erano il suo faro, ma se puntava gli occhi alla massa bianca e aspra che le guidava, sentiva in petto la fitta di una bugia.

Angelina aveva imparato che la montagna voleva onestà.
Era lei, il piccolo sasso ingoiato dal vuoto.

Lei che avrebbe voluto colmare la sua mancanza con la stessa ambizione delle sorelle, ma che invece si sentiva disabitata e desiderosa di uno spazio tutto per sé e non di una grande vittoria.
Angelina non riuscì a prendere sonno e l’alba arrivò in un refolo di vento, scompaginando le carte.

«Minetta, il bastone di Giovanni! L’ho sentito battere due volte… Sveglia!». Anna si infilò alla svelta i calzoni alla zuava che la facevano sentire al suo posto.

Giacoma allungò il corpo indolenzito verso il pavimento tentando di afferrare la camicia di flanella ripiegata sulla corda e riconobbe i passi nervosi del Marinelli.

«Angelina! Angelina, che ci fai ancora così? Perché non ti prepari?». Giacoma era spazientita vedendo che la sorella non accennava a muoversi.
«Io non vengo» fece Angelina, dando loro le spalle.

“Quando erano piccole il padre raccontava loro la leggenda della stella gentile, scesa dal cielo sulle rocce gelide per consolare una montagna triste.“

Gli sguardi delle sorelle s’incrociarono congelando l’istante in una lingua di ghiaccio sul punto di spezzarsi.

«Cosa stai dicendo Angelina? Questa è la nostra giornata, il nostro desiderio, la nostra occasione di fare la differenza…». Giacoma fu interrotta dal gesto della sorella che le posò con compostezza il dito indice sulle labbra e sussurrò. «Questa è la vostra storia, non la mia». Sembrava che Anna fingesse di non sentire, si legava gli scarponi come in preda a una furiosa implosione.

«La storia la fa chi ci mette la faccia, Angelina. Al diavolo la tua melancolia, andiamo a prenderci la montagna! Non più donne suppellettili, legate mani e piedi alla cura del marito, dei figli e della casa! Al fàle àncje il predi sul altar[3], ma lasciarci proprio adesso… Noi andremo insieme. Dovessi trascinarti di peso sulla cresta!».

Allora Angelina fece un passo e portò, una dopo l’altra, le mani di Minetta e Annina sulla sua pancia.

«Ho sognato la mamma stanotte. Ricopriva il mio ventre di grazia e biancospino e mi sussurrava la tua vetta l’hai già raggiunta, bambina mia. La montagna ci ha suggerito l’assoluto, il miracolo nelle scarpe. Ora io ne ho uno dentro di me, da custodire insieme a voi».

In quel preciso istante Giovanni irruppe nella stanza «I vin di dasi une mote![4]» le esortò, ignaro di ciò che era appena accaduto.

Dai piedi del torrione, quel memorabile giorno d’estate, Anna e Giacoma Grassi partirono. Punte di ferro ai calcagni, baculi torniti e picca alla cintola sostennero le intrepide pioniere nei passaggi più esposti e scoscesi dove versarono sudore saggiando il brivido della conquista.

Giunsero alla meta con le mani crettate e i cuori traboccanti. Anna vestiva l’aura luminosa della stanchezza.
Ci vuole coraggio per essere fedeli a sé stessi, si disse ripensando al viso sereno della sorella. Angelina, che non aveva rinunciato ma scelto.
Angelina che non si sarebbe mai fatta costruire un recinto intorno, né da un uomo né da un ideale.

Giacoma spalancò le braccia come se volesse far entrare quel paesaggio sfolgorante dentro di lei. Una stella alpina in penombra catturò la sua attenzione, fu tentata di raccoglierla ma ritrasse la mano e con il dorso si asciugò una lacrima che le rigava il viso accaldato. Quando erano piccole il padre raccontava loro la leggenda della stella gentile, scesa dal cielo sulle rocce gelide per consolare una montagna triste. Sola, perché irraggiungibile da alberi, fiori e animali che avrebbero voluto consolarla, la montagna desiderava stringere un legame con qualcuno più di ogni altra cosa. Così, quando la stella la raggiunse, la montagna riconoscente e commossa la ricoprì di un manto vellutato perché smettesse di tremare per il freddo tagliente.

La legò a sé donandole radici profonde, senza tuttavia costringerla a essere qualcosa di diverso da una stella.
Giacoma si sedette e si slegò la crocchia di trecce annodate sulla nuca, dalla vita desiderava tempo per nuove sommità, scenari e storie di altrettanta bellezza.

Come un discepolo muto dinanzi al proprio maestro, chiuse gli occhi e sorrise. Anna le sopraggiunse alle spalle cingendola in un abbraccio e le sussurrò «Se anche saremo dimenticate dalla storia, io, te e Angelina avremo aperto la via alle compagne che verranno!».

Una scossa attraversò Angelina nel momento in cui le sue sorelle misero il piede sull’apice imponente, la terra sotto di lei prese la forma lenta di un respiro e fu come trasportata in alto, con loro.

Il Sernio fu così ribattezzato Il Monte delle donne.

Anna immaginò il giorno in cui avrebbe preso suo nipote sulle spalle e gli avrebbe detto con orgoglio «Noi ci siamo stati, lassù. Eravamo già insieme».
_____
[1] “Guardate, guardate, quanta roba. Siete sordi?”
[2] Vuoi vedere?
[3] Sbaglia anche il prete sull’altare.
[4] Diamoci una mossa.

Ringrazio la rivista Montagne360 per aver pubblicato, nel giugno 2020, un articolo sulle sorelle Grassi (con un’intervista a Melania Lunazzi). La loro storia, a me sconosciuta, è stata spunto di immaginazione. Il testo ha dunque preso vita e, al di là dei fatti biografici e delle loro pionieristiche imprese, la mia fantasia si è nutrita perlopiù dello sguardo di Angelina, su cui ho poi incentrato il cuore del mio racconto. Ringrazio, altresì, il Museo Carnico che mi ha fornito – a suo tempo – lo sparuto materiale fotografico sulle sorelle, da cui sono partita per raccogliere dati e fatti reali che facessero da cornice alla mia storia. — Alessandra Cella

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Alessandra Cella

Alessandra Cella

Alessandra Cella, classe 1980, si laurea in Lettere all’Università degli studi di Torino con una tesi in letteratura greca medievale. E’ una felice abitante della misconosciuta Val della Torre, per la quale ha composto una canzone e che costantemente la ispira. Lavora come educatrice prima infanzia. Ama correre circondata dai suoi boschi di betulle e la peculiarità del suo essere una “valle anfiteatro”.


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1 commenti:

  1. Che bello Alessandra! Hai dato voce a chi ci ha aperto la strada.
    E grazie per gli inserti in marilenghe!
    Un abbraccio

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