Reportage

#40 UNA VOCE ALLE INCISIONI

testo e foto di Sara Invernizzi  / Bergamo

18/12/2020
7 min
Il Bando del BC20

Una voce alle incisioni

di Sara Invernizzi

Nei pressi delle sorgenti del Brembo e più giù, fino ai pascoli dell’Armentarga, in Val Camisana, ci sono centinaia di massi con incisioni rupestri.

Tracce antropiche antiche di almeno 2500 anni, ma anche più recenti.
Tra le nubi dense di umidità, il ruscellare sommesso dei tanti piccoli rivi che si perdevano annegando nelle torbiere dell’Aga, sotto la mole immensa dei giganti orobici, nel 1953 un giovane pastore di undici anni, proveniente da Clusone, incise un masso lasciando una traccia del suo passaggio: “Benzoni Venanzio pastore anni 11 1953 Clusone”.

Clusone è un comune della Valle Seriana, e il giorno in cui fotografai l’incisione ero incuriosita dal fatto che quel Comune fosse distante dall’Armentarga, in Valle Brembana. Mi affascinava l’idea di scoprire delle relazioni tra due vallate orobiche, separate dai grandi giganti, dalle vette più alte e aspre. Sapevo che le montagne non costituiscono solo un confine ma, soprattutto in passato, rappresentavano dei punti di contatto, come il Passo di Valsecca e le sue numerose incisioni dell’Età del Ferro stanno a testimoniare. Qualcuno infatti circa 2500 anni fa aveva dedicato a Pennino, il dio dei valichi e delle vette, un luogo di culto, una pietra su cui sono tutt’ora presenti incisioni antichissime, probabilmente per ottenere conforto e sostegno da entità superiori in un contesto che ancora oggi incute un profondo rispetto, che toponimi locali come Lago del Diavolo e Pizzo del Diavolo di Tenda testimoniano.

Su una di queste pietre è rappresentata una figura antropomorfa circondata da quelli che sembrano tre lupi, probabilmente dalla posa in cui la prima è raffigurata, si tratta di un sacerdote officiante un rito. Ammetto di avere il desiderio di poter raccontare la storia del sacerdote-mago e dei tre lupi, ma lascio agli archeologi svelare un arcano troppo remoto nel tempo. Invece la vicinanza temporale con quel giovane di 11 anni, il quale aveva certamente a che fare, in modo concreto e tangibile, con il contesto aspro e arcigno nel quale ci trovavamo, e dove si era trovato anche chi incise il mago con i lupi, mi rendeva estremamente curiosa per una storia che non sentivo così lontana.
Per questo la scritta di Venanzio Benzoni mi rimase incisa nella mente e, quando ad un corso in università mi capitò di incontrare Matteo Benzoni, che casualmente mi rivelò essere di Clusone, gli raccontai della pietra incisa. È emerso così che Venanzio è il suo prozio.

Io e mio marito ci siamo ritrovati in viaggio per andare a conoscere il pastore che a undici anni aveva inciso l’enigma che io avevo deciso di decifrare: desideravo risalire al motivo profondo che indusse un giovane ad incidere una pietra tra le pietre incise, a lasciare il suo segno come tanti altri, pastori, minatori e maghi o sacerdoti, avevano fatto prima e, sempre più raramente, dopo di lui.
A Venanzio portavamo in dono la fotografia di quella pietra incisa, che a causa delle incombenze della vita non aveva poi più visto, ma di cui si ricordava e della quale voleva parlarci.
La memoria di Venanzio ora vacilla, ma per fortuna la nostra indagine, risalente a circa due anni fa, è stata fatta per tempo e si è rivelata importante non solo per noi: al tavolo con i suoi figli sono emerse delle memorie di cui nessuno, eccetto lui e quel masso, erano a conoscenza.

Raccontare questa storia è come far parlare quelle pietre e portare ulteriore umanità in un contesto montano che a troppi ancora appare come “incontaminato” nell’accezione di totalmente naturale. Quelle torbiere, le rocce scabre ed incise, i ciuffi densi di erba olina, i delicati eriofori vacillanti sulle acque cristalline, la mole possente del Diavolo di Tenda, dell’Aga e del Grabiasca. Quella durezza cupa delle masse nere delle Orobie più profonde. Quei giganti di pietra assopiti e silenziosi, che pacatamente attendono il loro lento disgregarsi e si coprono di infinite piccolissime tracce del passaggio di uomini e donne che scalfiscono così superficialmente, o in profondità con le miniere, i loro corpi di ossa di rocce metamorfiche.

Venanzio non è di certo una pietra e il tempo ne ha a volte mutato i ricordi, io accetto questo e lo apprezzo, perché rende più morbida una narrazione che altrimenti risulterebbe fin troppo geologica.
Venanzio raccontò stupito che già a quattro anni aveva iniziato a recarsi come aiuto pastore sul Monte Vaccaro, dormendo in un roccolo, accompagnando lo zio. Rievocando quei momenti la voce tremava e traspariva la paura, il senso di lontananza da casa, un’esperienza forse troppo grande per essere compresa.

Dai sei anni iniziò a seguire il padre fino all’Armentarga. Il tragitto da Clusone alla conca delle sorgenti del Brembo era lungo: passavano dai solitari Laghi di Cardeto, dove si fermavano a dormire per una notte. Nel luglio del 1944 presso il soprastante Passo della Portula era caduto un aereo degli Alleati guidato da cinque aviatori che morirono nello schianto. Venanzio ci raccontò che i cadaveri erano stati sotterrati in prossimità del passo, e che quando si avvicinò vide le gambe dei morti sbucare dalla terra, probabilmente una suggestione troppo forte per un bambino; difficile immaginare che i corpi fossero effettivamente ancora lì. I ricordi di Venanzio sembravano così vividi, un’altra realtà alla quale non voglio oggi sovrapporre la verità della cronaca, perché ciò che importa sono le parole di un uomo che facendo parlare una pietra incisa dà un senso all’inanimata stratificazione di narrazioni di roccia, accumulatesi nel corso dei millenni alle sorgenti del Brembo.

Ad andare in alpeggio di solito erano dieci persone: cinque uomini e cinque ragazzi con un numero di 190-200 vacche, tutte provenienti da Clusone e quasi tutte di proprietà della famiglia Benzoni. Insieme alle vacche venivano portate in alpeggio anche pecore, maiali, cavalli, gestiti da una decina di cani. Mentre percorreva per la prima volta il lungo tragitto da Clusone all’Armentarga, il giovane Venanzio era seguito dal piccolo e fedele Bartelì, il suo porcellino.
L’alpeggio dell’Armentarga non era di proprietà dei Benzoni, ma di una famiglia di Branzi, che caricava al lago Fregabolgia, affittando a loro l’Armentarga, che aveva il lusso di una sorgente detta di Isaia che, come ricordò Venanzio ridendo, aveva l’acqua così fredda che faceva venire la dissenteria, da qui la necessità di un nome (d’ovvia ascendenza biblica) che facesse rima.

I ritmi in alpeggio erano scanditi dalle condizioni metereologiche e da alcune date, solitamente concomitanti con giornate dedicate al culto di particolari santi. A San Giacomo, il 25 luglio, si faceva la pesa del latte, il formaggio che il padre produceva alla casera, principalmente mascherpe e formaggio, veniva venduto quasi tutto ad un hotel milanese. Il padre lo portava al Decimo, mercante a Carona, scendendo ogni due-tre giorni a cavallo. Da lì risaliva con i generi alimentari necessari alla sopravvivenza in alpeggio, come il riso che poi veniva cotto nel latte.

Un anno, la mattina dopo l’Assunta, i maiali erano usciti dalla stalletta del Salvét, la baita posta più in alto, muniti di reggiseni sul groppone. Erano gli indumenti intimi delle donne che il giorno prima avevano raggiunto gli uomini, facendo il tragitto da Clusone per poter passare la notte assieme, tutti nella baita. Un’occasione che i dispettosi ragazzini non si erano persi, rubando il vestiario e gettandolo nottetempo nella stalla dei maiali! Bravate che colorivano le giornate estive dei giovani, poco intimoriti dal giudizio divino, siccome in alpeggio si stava per circa novanta giorni senza andare a messa e senza confessarsi, le magagne e i peccatucci si accumulavano. Il ritorno era previsto infatti per gli inizi di settembre, quando finiva l’erba.

La conca sotto il Diavolo di Tenda era stata utilizzata durante la guerra e non erano pochi i reperti bellici che vennero rinvenuti nella zona, ad esempio una mitragliatrice che veniva utilizzata dai pastori per sparare alle aquile, considerate pericolose perché portavano via gli agnelli, e la bomba ad elica rinvenuta da Venanzio mentre stava pascolando le pecore nei pressi del Passo di Valsecca. Era il 1953, Venanzio nascose il suo tesoro sotto un masso, su cui incise il suo nome, identificandosi come un pastore di anni 11, di Clusone. Realizzò l’incisione con uno dei chiodi che venivano impiegati per la ferratura dei cavalli.
L’ultimo anno passato in alpeggio, prima di emigrare in Svizzera a fare il pastore con uno zio, decise di disfarsi a suo modo dell’ordigno. Insieme agli altri ragazzi gettò la bomba in un avvallamento, dove rimbalzando esplose, con loro grande divertimento…
L’esplosione creò una piccola conca pietrosa, un altro (insolito) segno umano in un luogo in apparenza selvaggio, ma ricco di tracce, di storie e incisioni.

Mi sono quindi trovata davanti a Venanzio, che con gli occhi lucidi guardava la fotografia della pietra che aveva inciso, e con enfasi annunciava alla moglie che avrebbe comprato tutto l’Armentarga, che aveva sognato di volerlo fare, per poter possedere quel pezzo di storia che sapeva di non poter più riafferrare. Ora che i ricordi di Venanzio sono sempre più confusi, e la sua incisione rimarrà probabilmente ancora per secoli, io voglio rendere omaggio a quel ragazzino pastore, alle sue scoperte e alla sua infanzia scomparsa.

Non incido questa storia sulle pietre, ma a differenza di queste ultime mi auguro che le mie parole possano muoversi con più agilità, uscendo dalla valle delle sorgenti del Brembo, come un’eco che supera i limiti di una conca, come i pastori che non avevano timore a scavallare le montagne.

_____
foto:
1. Figura femminile e il cognome Benzoni, difficile dire se le incisioni sono coeve.

2. Le torbiere dell’Aga e sullo sfondo da sinistra il Diavolo di Tenda, il Diavolino, il Passo di Valsecca e il Monte Grabiasca.
3. Le incisioni di Venanzio.

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Sara Invernizzi

Sara Invernizzi

Tra anfratti rocciosi, borghi di crinale e nuove conurbazioni dell’arco orobico, cerco di “leggere” il territorio come se fosse un palinsesto, ricco di stratificazioni di narrazioni. Dai sentieri che percorro e dalle storie antiche, traggo ispirazione per nuove riscritture.


Il mio blog | Sono blogger di Altitudini da più di un anno. E' il luogo dove lascio depositare le storie a cui tengo maggiormente, come preziose concrezioni nelle profondità di una grotta e, come accade nelle caverne, anche quando mi perdo tra le storie di Altitudini sono felice.
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