Racconto

#30
IL POZZO DELL’INTUIZIONE

Da principio voglio far uscire i luoghi di questa storia dall’indeterminato. Sono valli con i loro nomi: la piccola Valle e il Ponte della Lisegna, nella Val Fredda...

testo e foto di Sara Invernizzi  / Bergamo

Il respiro diaframmatico della terra
12/01/2022
9 min
Marco_Rossignoli_014

Il pozzo dell’intuizione

testo di Sara Invernizzi

Da principio voglio far uscire i luoghi di questa storia dall’indeterminato. Sono valli con i loro nomi: la piccola Valle e il Ponte della Lisegna, nella Val Fredda, laterale della Valle dell’Ovrena, in Val San Martino.

Sono nomi che non tutti gli abitanti del posto conoscono, in quanto ognuno di loro ha un rapporto con una parte relativamente limitata di territorio: la propria casa, una porzione di montagna, la strada. Il resto è Altro da Sé, indeterminato appunto. Il Sé di questi montanari comprende anche i loro luoghi ed è imprescindibile da essi e non mi è difficile immaginare una geografia composta dai corpi dei miei vicini distesi e protesi, occupanti non solo fisicamente ma anche nominalmente il territorio: Bosco dei Ravasio, Casèl dól Tòne, la Stala dól Pierino. Non che le proprietà siano definite rigidamente, sono rari i casi di recinzioni, si percepisce il passaggio perché cambia l’impronta: «Vedi di là dove non ci sono le foglie? Quello è il mio».

Tutti questi territori sono ricchi di storie, perché spesso una famiglia si adagia laddove c’erano i suoi antenati e ne assimila non solo le costruzioni in muratura, ma anche le strutture verbali. Tra tutti questi Sé che geomorfologicamente e nominalmente possiedono e plasmano le valli e il monte, ci sono delle distanze o spazi marginali, il più delle volte perché non visti, o occupati collettivamente come luoghi di contatto oppure di rigetto comunitario. Tra queste distanze sono spesso le grotte: il posto dove si scaricano i rifiuti, si fanno vivere gli spiriti, si rifugiano eremiti o reietti. Sono i luoghi dove vengono buttate le carcasse e dove finiscono i cani.
Rua è scomparsa una domenica pomeriggio di gennaio in una zona impervia. Il suo padrone la vede che dal Fo (il grande faggio sopra il Bosco dei Ravasio) corre tra le betulle e i carpini verso la Val Fredda e sparisce. Il cacciatore attiva il radiocollare e inizia a cercare il cane: misteriosamente il GPS risulta essersi disattivato in una località scoscesa a picco sulla strada che sovrasta il Ponte della Lisegna. Le ricerche procedono fino a sera. Il suono del richiamo, unico elemento indicativo del luogo dove può essere scomparsa Rua, sembra spostarsi da una parte all’altra della parete di roccia calcarea ma non si riesce a identificarlo con precisione.

Io e mio marito sopraggiungiamo sulla strada, perché viviamo qui, e notiamo le torce agitarsi nei boschi impervi. Solo martedì sera vengo contattata da un amico del cacciatore: mi si chiede consulto in quanto sono una delle poche persone a conoscere l’esatta collocazione delle grotte. Noi siamo oriundi e per questo la nostra presenza è ubiquitaria, seppur non pervasiva: aleggiamo senza adagiarci. Trovare grotte per noi rappresenta un modo di entrare in contatto con gli aspetti più reconditi di un territorio e per respirarne l’alito che sale dal profondo, il respiro diaframmatico. Ne conosciamo le leggende, ma spesso non gli interni, perché ci infiliamo solo in buchi comodi, antropizzati e sicuri. Non siamo speleologi.
La notte sogno il cane: è morto sul mucchio di rifiuti sul fondo della grotta chiamata Làca di Fo; mucchio che aveva le sembianze di una piccola montagna o isola, intorno alla quale si allargava il vuoto buio e incommensurabile.

“La notte sogno il cane: è morto sul mucchio di rifiuti sul fondo della grotta chiamata Làca di Fo.“

Cercando nel buio

Mi sveglio angosciata e determinata a trovare Rua. Contatto telefonicamente il padrone, che non conosco – è strano vivere in questo paese e non conoscersi. Rino mi spiega cosa è accaduto da domenica pomeriggio a mercoledì mattina. Io prendo nota e mi attivo: faccio mente locale di tutte le cavità carsiche presenti nella zona perché, se il segnale GPS si è interrotto, le motivazioni possono essere solo due: o ha preso un fortissimo colpo, oppure è finito sottoterra.
Mio marito Marco corre a visitare una grotticella che ci sembra plausibile e per la quale non serve attrezzatura. Mentre sto contattando Andrea, il mio amico speleologo che ha rilevato la maggior parte delle grotte in zona, ricevo un messaggio di Marco che dalla grotta sopra la strada mi comunica di non aver trovato Rua, ma in compenso un pozzo nuovo, che non abbiamo mai notato nonostante gli fossimo passati in parte svariate volte. Aggiorno di questo Andrea e mi conferma che è un pozzetto scoperto mezzo secolo fa e non più rinvenuto.

Ci accordiamo per incontrarci con Rino, Andrea e la sua ragazza Felicita, la sera di mercoledì presso le pareti di roccia. Sopra le nostre teste rimbalza sinistro il suono di una campanella. La valle infatti è popolata da una coppia di capre selvatiche che di notte percorrono le zone scoscese facendo rotolare a valle i massi. Dal pozzo ci giunge la voce di Andrea: all’interno non sembra esserci nessun cane, anche se non è riuscito ad arrivare sul fondo, ma a chiamarla Rua non risponde e con la torcia riesce ad illuminare la fine della cavità dalle belle concrezioni e rocce stillanti. Decidiamo di trovarci la mattina seguente per proseguire le ricerche, con calate lungo le pareti di roccia per vedere alcuni dei buchi che due pompieri contattati il martedì avevano segnalato nelle loro esplorazioni infruttuose. Prima di salutarci io ricordo come in una delle grotte si racconta fosse stato scoperto un corpo durante la costruzione della strada negli anni ’70 – probabilmente appartenuto a qualcuno che stava cercando nascondiglio durante la guerra.

Ce ne andiamo pervasi da una forte sensazione di inquietudine e mi tornano in mente tutti i racconti leggendari connessi a questa piccola zona densa di narrazioni e di suggestioni: ad esempio il teschio di cane rinvenuto in un’altra cavità. Mio marito mi fa presente le dicerie dei cani che entrano nelle grotte e poi vengono ritrovati nei torrenti o nei laghi a chilometri di distanza – lo stesso vale per le capre e le loro campanelle. Suggestioni: in una delle frazioni più in alto si sentiva passare la caccia morta – una muta di cani ululanti, con gli occhi di bragia, guidati dallo spirito di un cacciatore. Spiriti: come quello del Carùnfa, o il Magro, che dalla stalla vicino al Ponte della Lisegna, offriva mestoli di minestra ai passanti. Mi sento attratta potentemente dalla forza misteriosa di questo posto, ancora viva nonostante la strada, i lampioni, i molteplici schermi luminosi accesi in tutte le case abitate.

“Mi tornano in mente le leggende della Cavra sbrégiola, o Cavra bésula e la filastrocca della Cavrà döl zambèl, senza ossa e senza pèl.“

Ombra densa e fredda

L’indeterminato

La mattina dopo salendo verso il ponte, dove ci dobbiamo incontrare con gli altri, vediamo una delle due capre immobile a guardarci da uno sperone roccioso, come sospeso tra le brume mattutine che scivolano sulle pallide pareti di roccia. Decidiamo di salire dal Bosco dei Ravasio per andare a visionare la Grotta del tasso impiccato – chiamata così da Andrea perché vi rinvenne il cadavere di un tasso appeso per il collo con un laccio. La grotta è breve e all’interno non ci sono tracce di Rua. Proseguiamo verso il Bus dól técc, altra cavità un tempo utilizzata per l’estrazione di una sabbia impiegata nell’intonacatura dei muri, e ci dividiamo: l’obiettivo di Andrea, Felicita e Rino è calarsi lungo le pareti ed esplorare la zona più impervia. Io e la mia cagnolina indaghiamo una zona piena di tane e ossa recenti – mi chiedo se sono il pasto delle capre carnivore. Mi tornano in mente le leggende della Cavra sbrégiola, o Cavra bésula e la filastrocca della Cavrà döl zambèl, senza ossa e senza pèl.
Ci teniamo in contatto con gli altri tramite voce, ma l’eco è strana, i suoni rimbalzano sulle pareti di roccia, o paiono scomparire assorbiti nella terra. Giunti alla testata della valle, Marco e Christian (l’amico di Rino) decidono di ridiscendere nella forra verso il ponte. Io proseguo l’esplorazione lungo la base delle pareti di roccia del versante opposto a quello che stanno esplorando in calata Andrea e Felicita. Prima di fare ritorno, salgo sulle creste calcaree che dividono la Val Fredda in tante vallecole minori e da una di queste scruto con il binocolo gli speleologi in esplorazione, ma hanno trovato solo una breve fessura e alcune tane.

Nonostante siamo vicini a casa, pranziamo sui detriti rocciosi sul fondo della Valle della Lisegna. Abbiamo deciso di proseguire la perlustrazione anche nel pomeriggio, ci sembra impossibile che un cane possa essere scomparso nel nulla. La nostra testa e le informazioni che abbiamo non possono bastarci, razionalmente qualcosa ci sfugge o non può essere raggiunto. Per andare avanti dobbiamo necessariamente affidarci ad altro: alla montagna e ai suoi segni. Questa ricerca ci porta ad avere una meta che non è un punto conoscibile, segnato su una mappa, come un rifugio o una vetta. La nostra destinazione è un luogo sconosciuto nel momento in cui stiamo cercando e che forse verrà rivelato. In quale lingua mi parla la montagna? Con simboli e segni. Ma come percepirli? Occorre forse avere intuito e pazienza, fiducia e umiltà.

Riprendiamo il cammino e perlustriamo la parte alta della valle. Ci sono altre piccole grotticelle, cave, anfratti e tane. Cerchiamo di sondare le pozze d’acqua che si raccolgono nei pressi di alcune sorgenti. Una di queste, profonda circa tre metri, fu la causa di una terribile tragedia avvenuta circa cinquant’anni fa: un bambino vi cadde dentro e annegò. Le urla della madre disperata rimbalzarono sulle pareti di roccia e moltiplicarono la voce straziante. Ma Rua nel pozzo non c’è. Torniamo alle auto frastornati e determinati a proseguire le ricerche anche il giorno dopo.

Sta calando il buio e in cima alle pareti di roccia avvampano i rami spogli dei carpini. Poi tutto piomba nell’ombra densa e fredda. Andrea decide di andare a fare una foto all’ingresso del pozzo scomparso e ritrovato, disceso la sera prima. Ci urla: «Io sento l’abbaiare di un cane dentro la montagna, lo sentite anche voi?» In effetti si sentono dei cani abbaiare e ha ripreso a suonare anche la campanella delle capre. Ma lui dice che il suono viene da dentro la montagna, in profondità nella roccia. Salgono anche mio marito e Felicita con l’attrezzatura. Io chiamo Rino. Marco conferma: è come un latrato spettrale imprigionato nelle pietre. Andrea si cala e sul fondo scopre uno stretto cunicolo, al di là del quale c’è Rua. È arrivato anche Rino e Felicita gli fa indossare l’imbrago e lo fa calare per la prima volta – nella sua vita – nel mondo ipogeo, dove ritrova il suo cane, vivo dopo cinque giorni e la caduta. Ipotizziamo che Rua sia scivolata lungo le pareti scoscese e finita per un caso fortuito nel pozzo; giunta sul fondo deve aver cercato una via di fuga scavando e poi si è incastrata esausta nel ventre della montagna. Perché non abbia emesso alcun suono la sera prima non ci è chiaro. Viene messa in una sacca per le corde e issata fuori, lì portata subito dal veterinario che dà la buona notizia: nulla di rotto, solo una vertebra infiammata.

Questa è la storia di una Epifania. È infatti è la sera del 6 gennaio quando Rua viene ritrovata viva nel Pozzo della Lisegna. A distanza di ventiquattr’ore esatte dall’inizio delle nostre ricerche siamo tornati al punto di partenza. Quel buco dal piccolo ingresso: era la meta che avevamo di fronte agli occhi sin dal principio, ma che non abbiamo potuto vedere. È servita una giornata solare perché il momento del salvataggio avesse luogo, è servito il nostro cammino attraverso i segni e l’inesauribile profondità che può rivelare la montagna. Con questa esperienza non abbiamo trovato solo Rua, ma anche la storia che andavo cercando: il racconto giusto per esprimere cosa per me è la Montagna, ovvero non un luogo concreto, ma uno stato inesplicabile in quanto esperienza sacra. Ho intuito questo modo d’essere il giorno dell’Epifania a pochi metri da casa e trovandolo ho contribuito a salvare la vita di Rua. Perché la Montagna non è solo salvezza spirituale e interiore, è anche salvezza concreta e fisica: è ben-essere.

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Sara Invernizzi

Sara Invernizzi

Tra anfratti rocciosi, borghi di crinale e nuove conurbazioni dell’arco orobico, cerco di “leggere” il territorio come se fosse un palinsesto, ricco di stratificazioni di narrazioni. Dai sentieri che percorro e dalle storie antiche, traggo ispirazione per nuove riscritture.


Il mio blog | Sono blogger di Altitudini da più di un anno. E' il luogo dove lascio depositare le storie a cui tengo maggiormente, come preziose concrezioni nelle profondità di una grotta e, come accade nelle caverne, anche quando mi perdo tra le storie di Altitudini sono felice.
Link al blog

8 commenti:

  1. Marco Rossignoli Marco Rossignoli ha detto:

    Ero giá preoccupato per Rua. Per fortuna c’é il lieto fine.

    1. Sara Invernizzi Sara Invernizzi ha detto:

      Anche se è ancora in fase riabilitazione, con la speranza si riprenda del tutto!

  2. Carla Nozza ha detto:

    Nel leggerti in un fiato,mi son ritrovata accanto a voi nella ricerca di Rua .Immaginandomi anche la bellezza delle montagne che abitate.

    1. Sara Invernizzi Sara Invernizzi ha detto:

      Grazie Carla per la lettura e per esserti avvicinata a noi in questi luoghi un po’ sperduti ma tanto intensi!

  3. Sonia ha detto:

    Grande capacità narrativa e vissuto personale si intrecciano in un racconto/resoconto preciso e particolareggiato.

  4. Silvia ha detto:

    Bellissimo rscconto grazie !!!!

  5. Elisa ha detto:

    Ho letto tutto d’un fiato, non potevo fare altrimenti perché le parole mi hanno tirato dentro il racconto!

  6. Gian Luca Gian Luca ha detto:

    Bel racconto! Interessante il particolare della “caccia morta” che deriva dal mito della “caccia selvaggia” ancora diffuso in tante aree montane d’Europa dal Nord fino agli Appennini.

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