Sta in un’affilata bava di terra inarcata da monti e da vette potenti, e come la schiena di un immenso mostro arcaico si anima per emergere tra terra e cielo. Vi tira un’aria di vette, un’aria forte con l’orizzonte che misura più di quaranta miglia di diametro. Una natura impegnativa, schiva e ruvida, impetuosa e crudele, fosca e lucente, umile e sfrontata. Niente facilitazioni ma incavi che vanno cercati con fatica e compresi nei loro segni stratificati.
La selva, di cui si racconta, si dilata al crescere dei giorni di cammino, e non si può definirla altrimenti giacché non se ne conosce più la misura. Filari di piante disetanei ritmano il passo; faggi e abeti di mole più che colossale si legano fino a non permettere adito che a qualche fiacca ed interrotta lama di luce. Molti di questi alberi schiantati da folgori violente barricano la via e si frappongono. Hanno 130 palmi di altezza e diametro di 30 piedi. E qui, tra le gradualità di verde, un’armata fiera di uri resiste ancora stracciando erba perché si sa che in questi spazi si nascondono anche specie di bestie sconosciute altrove, e che tra queste alcune sembrano più ignote di altre.
A tratti si mostrano radure febbrifughe tra felci ammiccanti e rocce nude; in una scacchiera di chiaroscuri si rincorrono tronchi annodati, rami deformi, grovigli selvaggi, muschi e fusti argentei di faggi primitivi. E tutto è viziato di umidezze e fiaccato dal disfacimento del gelo.
A metà si apre una forra, è una ferita profonda rotta solo dal borbottio fondo di un ruscello. Genziane e ranuncoli sollazzano vicino le sue sponde, mescolate a felci e equiseti, mentre il picchio nero, dall’alto dei rami, riecheggia pronto. C’è un punto in cui poi la forra cala a picco come in un budello angoscioso; le pareti grasse precipitano per centinaia di metri così perfettamente erette che a stento quasi si indovina il ruscello che sprazza bava fin laggiù, godendo tra il riposo e l’abbandono che lo serrano.