Da lontano vedo sbucare due sagome dalla porta e spero siano simpatici o, meglio, simpatiche.
Sono una giovane coppia saliti per scalare l’indomani. Dopo le dovute presentazioni passo all’esigenza primaria: sfamarci. Il menù del giorno prevede 250 gr. a testa di ravioli in brodo, serviti in due turni a causa della pentola troppo piccola. Dopocena, tra chiacchiere e carte al lume di candela, propongo a Edo una via di cui avevo sentito ben parlare, lo carico un po’ leggendo un racconto e gli mostro la relazione. E’ gasato almeno quanto me e accetta ingenuamente senza sapere cosa lo aspetta… nemmeno io in realtà. L’ennesima sconfitta inferta dai Bergamaschi ci fa optare per il letto. Uno sguardo alla stellata magnifica, alla parete illuminata dalla luna, alle luci del paese laggiù e la porta si chiude cigolando. Chiudo la zip del mio bozzolo e parte la danza dei pensieri. Penso alla via di oggi; ad ogni tiro, ad ogni passaggio e ad ogni appiglio. Penso a domani; ripercorro la linea studiata sulla carta, penso al materiale da portare e che ne abbiamo la metà di quello indicato. Non riesco a prendere sonno. Sarà colpa della cena troppo leggera offerta dal signor Rana? Oppure di quella frase che non mi si toglie dalla mente? “Paragonata alla via del Pesce, è stata giudicata da alcuni ripetitori più difficile”. Questa è l’introduzione alla via scritta da un’autorità dell’alpinismo. Un confronto con la via “Attraverso il Pesce” in Marmolada! Un capolavoro per bellezza e difficoltà che, un giorno, mi piacerebbe ripercorrere.
La digestione e la stanchezza hanno la meglio e crollo fino alla sveglia delle 8.
I nostri coinquilini sono già in corsa verso la vetta. Due battutine motivazionali al mio socio pigrone e siamo in piedi. Un ottimo caffè solubile, manciate di biscotti, uova sode, pane e marmellata sono la perfetta colazione. Un momento così fondamentale per Edo che, ad ogni uscita, è diventato propiziatorio chiedergli: «cos’hai mangiato questa mattina?» La risposta mi stupisce sempre per quantità e varietà. Ogni volta mi si apre lo stomaco ripensando al mio tè accompagnato da due tristi fette di pane velate di marmellata.
Prepariamo il materiale come fosse un rito sacro misto ad un mercato di paese.
Io: «2 friend gialli, 8 rinvii… martello e chiodi?».
Edo: «Porta, non si sa mai».
Io: «Va bene, anche se non li ho mai usati… Barrette?»
Edo: «Porto solo queste».
Io: «Saranno una decina! Ti basteranno?»
Pochi passi ci separano dall’attacco della via. Giornata stupenda, esposizione nord-ovest, si sta benissimo. Coerente in ogni gioco, perdo anche a testa o croce vincendo così il primo tiro. Complici i solidi spit e la difficoltà non elevata, i metri scorrono veloci sotto le scarpette e. acchiappando dei ciuffi d’erba bagnata, guadagno la sosta. Aspettando Edo, scatto due foto ai Berghem 50 metri a destra di noi.
Alziamo la testa e non vediamo altro che roccia compatta. Un muro perfettamente verticale a buchetti incombe su di noi. Estraggo la relazione, la ingrandisco con gli occhi, la giro e rigiro, ma quella clessidra indicata sulla carta in parete non si vede.
Positivo esclamo: «Sarà nascosta in quel diedro, vai tranquillo…»
Non troppo confortato il mio pavido compagno traversa in cengia e lascia per qualche metro la sicurezza del praticello in fiore, ancora un paio di passi e retrocede alla casa base. «Io non ho visto nulla, prova tu!». Mi armo di coraggio, materiale da carpentiere, e parto. Dopo 10 metri a destra inizio a salire seguendo una teoria di buchi spettacolari. Quando ormai le violette della cengia non si distinguono più, metto una protezione. Quel friend giallo mi strappa un ironico sorriso, so che è una protezione solo psicologica. L’effetto placebo funziona e salgo ancora verso qualcosa che pare un cordino. Lo raggiungo, sono 15 metri sopra la sosta con due buchi discreti tra le dita, il chiodo è proprio davanti a me ma il cordino è tranciato e lo sfilo lanciandolo nel vuoto. Estraggo dalla tasca dei pantaloni un kevlar aperto, frutto dell’esperienza del giorno precedente. Il chiodo è un pezzo di tubo con due piccoli fori e centrarli con una sola mano è un’avventura. Tra un tentativo e l’altro rilasso le braccia e, alla fine, faccio centro! Il secondo step è fare il nodo. Sono stanco e sudaticcio, una gamba inizia a tremare, subito imitata dall’altra. Un bel respiro, tuffo le mani nella magnesite e rallento il battito. In aiuto alla mano arrivano i denti a chiudere quel maledetto nodo. Salvo!
Con l’adrenalina a mille danzo fluido fino al chiodo successivo che estraggo senza sforzo dalla terra per poi rimetterlo al suo posto. Ottimo, penso tra me.
La parete perde verticalità e raggiungo la salvezza della cengia. Esco dalla mia bolla di emozioni e urlo «Soooosta!»
Mentre recupero le corde mi guardo attorno, non penso a nulla, gli occhi corrono da una parete all’altra, ai verdissimi prati sotto di noi e al cielo puntellato di meringhe all’orizzonte.
La bellezza della scalata ha aperto lo stomaco all’alpinista di Lissone che, con mezza barretta cocco e cioccolato in bocca, mi farfuglia qualcosa. Intuisco che mi passa il comando e gli rubo il materiale dall’imbrago. Ancora roccia stupenda, verticalità assoluta e qualche sporadico chiodo o clessidra. Da ingegnere mi stupisco per l’abilità di come siano piantati; a volte accoppiati tra loro o bloccati da pezzetti di legno. Mi fido della loro tenuta ma nel dubbio stringo un po’ di più quella tacchetta con la mano destra e quel buchetto di sinistra.