[ 1 classificato bc.2012 ]
testo e foto di Lorenzo Filipaz / Trieste
“Una montagna si impara a conoscerla davvero quando ci dormi sopra” – J. Kugy.
È il motto della nostra compagnia fin dai suoi albori, il gruppo alpin-goliardico “Le Cavre”.
Otto anni fa pernottammo al Perugini in Val Montanaia, dinanzi al celeberrimo Campanile. Allora non salimmo alcuna montagna ma familiarizzammo con la notte in quota, seppure imbozzolati nelle lamiere rosse di un bivacco Fondazione Berti, la famosa “lattina di coca-cola”.
I rumori che filtravano oltre le paratie del ricovero, i bramiti dei cervi a valle, il rotolare improvviso di qualche sasso sul ghiaione detritico poco distante diradarono il nostro sonno in chiazze di riposo guardingo e nervoso. Sebbene avessimo dormito come salami in bilico c’innamorammo della notte in quota al punto dal farne uno degli elementi costitutivi del nostro sodalizio, avvinti dalla magia dell’alba che avanza rapida sulle rocce fra guglie silenti, ma anche dal sapore irripetibile della grappa sorseggiata in uno stambugio sperduto in mezzo al nulla, al calare delle tenebre, col suo senso affatto paradossale di solitudine accogliente.
Ci affrettammo a ripetere l’esperienza, sperimentando talvolta ricoveri farciti di altri respiri spesso pesanti, ma più sovente condividendoli con pochi compagni occasionali come al Bivacco della Pace, sull’isolato gruppo di Fanes, assieme a due cechi con i quali barattammo la nostra grappa barricata per della slivoviza. Solidarietà spontanea che nasce nei rari incontri con altri viandanti squattrinati o poco propensi alla confusione cameratesca dei rifugi, scambi e in certi casi questue, come quella volta al Grisetti quando una coppia ci donò tonno, pasta e formaggio essendo rimasti a corto di viveri, con l’estenuante ferrata Costantini ed il Van delle Nevere ancora a dividerci dalla nostra auto in Val Corpassa.
Alcuni di noi si ribellarono alla geografia talvolta illogica dei bivacchi e salendo il Jof Fuart si caricarono di una tenda da campeggio grossa e pesante. La piantarono in una caverna scavata dai kaiserjaeger nella 1° G. M.. Dopo averne saggiato il peso sulle spalle provate da 1500 di dislivello e dopo una notte insonne falcidiata dal pietrame del fondo, dallo stillicidio della grotta e forse da antichi fantasmi di soldati falciati proprio in quegli stessi spazi, si dissero “mai più”.
Così seguitammo a trascorrere le nostre notti in ricoveri incustoditi ma solidi, passandone in rassegna tutti i tipi: oltre ai “Berti”, baite lignee, casere in muratura e persino futuristici “moduli lunari” a 3 piani come quello del Grintovec, in Slovenia. Con la neve, a -15°, sotto diluvi, con folgori spaventose moltiplicate dall’eco delle pareti, dubitando nell’effetto “gabbia di Faraday” della scocca metallica.
L’anno scorso volammo in Norvegia da una “Cavra” emigrata, ed esplorammo lo Jotunheimen, 500 km sotto il circolo polare. La sua compagna glaciologa – adusa alle spedizioni polari in tenda – ci introdusse alle tende tecniche ultraleggere: paleria minima, micro-aghi come picchetti, un solo telo.
Dormimmo vicino a Besseggen, spettacolare incrocio di laghi dai differenti colori a quote sfalsate, resistendo all’instabile tempo scandinavo, levandoci asciutti e riposati dopo una notte di pioggia e vento.
In Norvegia il campeggio libero è un’autentica filosofia di vita e ha avuto facile gioco a contagiarci. Quest’anno l’abbiamo applicata alle nostre amate Dolomiti adattandoci alle loro restrizioni: ammesso solo il “campeggio alpino” – si monta al crepuscolo e si smonta all’alba. Abbiamo iniziato al Passo Tadega, spezzando il lungo giro che conduce al Piz dles Cunturines, bissando un mese dopo al Vallon Popera.
Abbiamo scoperto i rumori della notte: il tramestio misterioso dell’erba smossa dal vento e dalla rugiada, gli scalpiccii di sconosciuti ungulati. Urla, rantoli, fruscii di bestie notturne indefinite visitano l’udito del campeggiatore alpino alimentando fantasie da dormiveglia inquietanti e magiche: ci s’immagina frotte di animali che raspano il terreno tutto intorno alla tenda, corvi a tre zampe, esseri mitici subito oltre il telo che non si vuole scostare per paura di accertarne la natura.
Anche l’erba ha una vita, e anche i mughi e pure i sassi forse, le pareti lontane e i canaloni.
Kugy lo sapeva.
[ 1 classificato bc.2012 ]