Mio fratello si trovava… quanto? Venti, trenta metri sotto di me?
Non ero in grado di stabilire di quanto fosse salito rispetto alla sosta. In ogni caso, doveva affrontare ancora un tiro di corda. L’ultimo, grazie al cielo.
Mi trovavo su un terrazzino da cui avremmo poi dovuto prendere il sentiero per la discesa e da lì stavo facendo sicura al mio compagno. Il problema era che non eravamo più in grado di vederci, né di sentirci.
Me n’ero reso conto a metà dell’ultimo tiro, quando, dopo aver suberato uno strapiombino, non avevo più avuto modo di vederlo. Avevo provato a gridare, ma le parole venivano ghermite dal vento. Benché legati, eravamo soli.
Ripresi a salire, constatando con sollievo che Ema continuava a darmi corda. Piano, un poco per volta, continuavo a salire.
Giunto all’uscita della via, mi assicurai con il cordino ad un albero e provai nuovamente a chiamarlo. Gridai e gridai, con sempre maggior forza, ma senza ricevere risposta. Non una voce, non un suono trasportato dal vento.
La prima reazione fu “digitale”, ovvero tastai le tasche dei pantaloni cercando il cellulare, ma poi mi ricordai di averlo lasciato nello zaino. E lo zaino era sulle spalle di mio fratello. Ero solo, in un mondo che per me era tornato totalmente analogico.
Una sottile inquietudine cominciò a farsi strada tra i pensieri. Quell’ultimo tiro era stato parecchio impegnativo e già alla penultima sosta eravamo entrambi molto stanchi. L’unico modo che avevamo per comunicare era attraverso la corda.
Le diedi due strattoni: molla tutto.
Dopodiché provai a tirarla un poco. Niente.
E se Ema, là sotto, non avesse capito e non avesse liberato la corda?
No, prima o poi, a furia di strattoni se ne sarebbe dovuto accorgere, per forza.
C’era però un altro problema, che realizzai in quel momento: in un punto la corda faceva un giro un po’ contorto formando un angolo di circa 90 gradi.
In quel tratto avevo cercato di allungare il più possibile la protezione, ma forse non era stato abbastanza.
Attesi un momento poi diedi due strattoni ancora più forti.
Tirando leggermente, la corda quella volta sembrava venire dietro.
Mi ero quindi affrettato a recuperare il lasco e a mettere in sicura il compagno.
Avevo fatto il più in fretta possibile, il cielo era coperto dalla mattina e non prometteva nulla di buono.
Diedi quindi tre forti strattoni: vieni pure.
Ma, anche in quel caso, il dubbio: e se non avesse capito?
Ema si sarebbe fidato a scalare senza sapere se all’altro capo della corda qualcuno lo stesse assicurando?
Io sono di mare, lontano da me l’idea della montagna che vedo immensa , ammaliatrice e minacciosa. Questo racconto però è affascinante,la salita, la fatica, la preoccupazione per il compagno è un inno di amore alla Natura.
Ciao Tina!
E’ vero, questo racconto è anche un inno di amore verso la natura, perché da lei possiamo sempre trarre insegnamento.
Per alcuni anni io e mio marito abbiamo arrampicato assieme. Sono passati più di vent’anni da allora, ma ricordo ancora le emozioni e le sensazioni che Paolo descrive così bene nel suo racconto. La corda diventa un “cordone ombelicale” attraverso il quale si condividono pensieri ed emozioni, tanto che ad un certo punto le parole non servono più ed è sufficiente guardarsi “occhi negli occhi”.
Ciao Manu!
Che meraviglia, essere legati nella vita ed in parete dev’essere qualcosa di doppiamente unico.