Racconto

VIBRAZIONI

«Ricordatevi di guardare i fiori», scriveva Armando Aste, poeta delle rocce. Ed io li osservavo, sempre, ma non in quel momento.

testo e foto di Paolo Colombo

29/01/2023
7 min
Le dita erano tese sulla corda.
Percepivo delle vibrazioni, ma non riuscivo a capire se fossero dovute al compagno che stava salendo o ai battiti del cuore che pulsavano nei polpastrelli.

Mio fratello si trovava… quanto? Venti, trenta metri sotto di me?
Non ero in grado di stabilire di quanto fosse salito rispetto alla sosta. In ogni caso, doveva affrontare ancora un tiro di corda. L’ultimo, grazie al cielo.
Mi trovavo su un terrazzino da cui avremmo poi dovuto prendere il sentiero per la discesa e da lì stavo facendo sicura al mio compagno. Il problema era che non eravamo più in grado di vederci, né di sentirci.
Me n’ero reso conto a metà dell’ultimo tiro, quando, dopo aver suberato uno strapiombino, non avevo più avuto modo di vederlo. Avevo provato a gridare, ma le parole venivano ghermite dal vento. Benché legati, eravamo soli.

Ripresi a salire, constatando con sollievo che Ema continuava a darmi corda. Piano, un poco per volta, continuavo a salire.
Giunto all’uscita della via, mi assicurai con il cordino ad un albero e provai nuovamente a chiamarlo. Gridai e gridai, con sempre maggior forza, ma senza ricevere risposta. Non una voce, non un suono trasportato dal vento.
La prima reazione fu “digitale”, ovvero tastai le tasche dei pantaloni cercando il cellulare, ma poi mi ricordai di averlo lasciato nello zaino. E lo zaino era sulle spalle di mio fratello. Ero solo, in un mondo che per me era tornato totalmente analogico.
Una sottile inquietudine cominciò a farsi strada tra i pensieri. Quell’ultimo tiro era stato parecchio impegnativo e già alla penultima sosta eravamo entrambi molto stanchi. L’unico modo che avevamo per comunicare era attraverso la corda.

Le diedi due strattoni: molla tutto.
Dopodiché provai a tirarla un poco. Niente.
E se Ema, là sotto, non avesse capito e non avesse liberato la corda?
No, prima o poi, a furia di strattoni se ne sarebbe dovuto accorgere, per forza.
C’era però un altro problema, che realizzai in quel momento: in un punto la corda faceva un giro un po’ contorto formando un angolo di circa 90 gradi.
In quel tratto avevo cercato di allungare il più possibile la protezione, ma forse non era stato abbastanza.

Attesi un momento poi diedi due strattoni ancora più forti.
Tirando leggermente, la corda quella volta sembrava venire dietro.
Mi ero quindi affrettato a recuperare il lasco e a mettere in sicura il compagno.
Avevo fatto il più in fretta possibile, il cielo era coperto dalla mattina e non prometteva nulla di buono.

Diedi quindi tre forti strattoni: vieni pure.
Ma, anche in quel caso, il dubbio: e se non avesse capito?
Ema si sarebbe fidato a scalare senza sapere se all’altro capo della corda qualcuno lo stesse assicurando?

Le dita erano tese sulla corda.
Percepivo delle vibrazioni, ma non riuscivo a capire se fossero dovute al compagno che stava salendo o ai battiti del cuore che pulsavano nei polpastrelli.
Gridai nuovamente.
Nessuna risposta.
Mi sedetti.

Non potevo far altro che attendere, tenendo le dita sulla corda tesa cercando di intuire, dalle vibrazioni trasmesse, ciò che stava avvenendo decine di metri più in basso.
Ad un tratto, ecco che la corda si fece più molle.
Mio fratello aveva cominciato a salire.
Che coraggio, pensai.

Mi affrettai a recuperare, in modo da fargli capire che lo stavo assicurando, ma poco dopo la corda tornò a tendersi, rimanendo così immobile per interminabili minuti.
Sapevo bene cosa significasse.
Ema aveva raggiunto le fessure, il tratto più difficile della via.
Non sarebbe stato facile.

Anch’io lì avevo penato (e non poco) e, per superarle, avevo dovuto utilizzare due cordini come staffe per i piedi per riuscire ad alzarmi quel tanto che bastava per raggiungere con le mani un’altra fessura, questa orizzontale, e tirarmi su a forza di braccia, non avendo praticamente nulla per appoggiare i piedi.
Proprio in quel passaggio mi ero poi ritrovato, per quei movimenti assurdi che talvolta, per la fretta, ci si ritrova a fare, con una mano e un piede incastrati nella stessa fessura.

Per togliere la mano avevo dovuto strattonarla con forza lacerandomi il dorso.
Fissavo distrattamente il sangue raggrumato mentre con la mano carezzavo la corda, quasi a rassicurare, attraverso di essa, il mio compagno.
Ma nulla, la corda seguitava a rimanere tesa.
Rimasi a fissarla per qualche minuto, poi percepii un’altra vibrazione.
Mi preparai a recuperare, ma la corda tornò nuovamente tesa.
E così rimase ancora per un tempo che mi parve infinito.

«Forza, dai», mi ritrovai a sussurrare alla corda, ma rivolgendomi in realtà a mio fratello, «ne abbiamo fatte di peggiori. È l’ultimo passaggio difficile, poi è fatta. È solo la stanchezza».
Ma, In realtà, sapevo bene che non ne avevamo fatte di peggiori.
Avevamo deciso di cimentarci con quella via proprio perché era più impegnativa di quanto fatto fino a quel momento.
Nessuno spit, solo chiodi tradizionali, distribuiti per di più con una certa parsimonia.
Nel tratto di parete con cui si stava misurando Ema vi erano due fessure che salivano parallele, nelle quali si trovavano, a poca distanza, due chiodi, che mi avevano permesso di utilizzare i cordini come staffe.

Il cuore mi batté ancora più forte in petto mentre mi rivedevo appeso a quei due chiodi, ma a preoccuparmi maggiormente era il pensiero di averli allentati col peso.
Se Ema avesse fatto la stessa manovra, avrebbero tenuto?
Non avevamo neppure portato il martello per poterli testare ed eventualmente ribattere.
D’altro canto, quel giorno non eravamo partiti con l’intenzione di salire quella via, ma un’altra che si trovava lì vicino.
Volevamo fare una salita di allenamento, ma avevamo sbagliato sentiero ritrovandoci proprio sotto la parete per la quale ci volevamo preparare e che in quel momento ci stava vedendo impegnati.
Eravamo rimasti fermi per qualche minuto a studiarla, poi, di punto in bianco, mio fratello se ne uscì con un: “Cià, la facciamo?”.

Ci guardammo sorridendo e, senza quasi rendercene conto, Ema aveva già attaccato il primo tiro.
«Se siamo finiti qui sotto, vuol dire che era destino», aveva detto.
Ma il problema del destino è che non ti svela mai i suoi piani.
Sentii nuovamente qualcosa sui polpastrelli, ma compresi subito che era il sangue che pulsava sulla corda.
Il cuore mi batteva decisamente più forte rispetto a quando stavo arrampicando io stesso.
«Forza, dai. Ne abbiamo affrontate di peggiori», mentii.

Non potevamo definirci dei forti arrampicatori, ma avevano comunque accumulato una certa esperienza in anni di scalate.
Io, in particolare, non mi sono mai sentito veramente uno scalatore.
Anche durante le camminate in montagna, ho sempre sentito di avere il passo più del naturalista che dell’alpinista.
Lo sguardo sempre vigile, pronto a cogliere qualsiasi movimento nei prati, tra le rocce, nei boschi, che potesse rivelarmi la presenza di un capriolo, di una volpe, di un camoscio.

«Ricordatevi di guardare i fiori», scriveva Armando Aste, poeta delle rocce.
Ed io li osservavo, sempre, ma non in quel momento.
In quel momento il colore violetto da cui non distoglievo gli occhi era quello della corda che avevo sempre tesa tra le dita.
Il cuore continuava a battere in petto.

Provai nuovamente ed inutilmente a gridare.
Pensai a mio fratello, decine di metri più in basso.
Lo immaginavo appeso ai cordini, da solo.
Solo, con i suoi pensieri e le sue forze, che certamente stavano via via affievolendosi.
Un pensiero, che fino a quel momento avevo tenuto a bada, mi si insinuò nella mente.

E se non ce l’avesse fatta?
Che fare?
Non potevo calarlo fino alla sosta, non avendo modo di comunicarglielo.
Calarmi io?
E poi, che fare?
Nulla.

Non potevo fare nulla, se non restare vigile, con le dita che scorrevano sulla corda a coglierne ogni minimo tremolio.
Riflettei che mai, come in quell’occasione, mi era capitato di parlare al compagno attraverso la corda.
E la corda raccontava ai miei polpastrelli ciò che stava avvenendo più in basso.
E, proprio in quel momento, mi disse che Ema si stava muovendo.
Recuperai qualche centimetro di corda, poi questa tornò bruscamente a tendersi.

«Cazzo», mormorai.
Speravo non fosse caduto, anche se, nel caso, non avrebbe fatto un gran volo, ma solo una scivolata.
Il problema è che, in circostanze come quelle, una scivolata può far precipitare il morale.
E sapevo bene quanto i nervi dovessero rimanere saldi.
Io stesso, ormai al sicuro in sosta fuori dalla via, non dovevo lasciarmi trasportare dalle emozioni, tra le quali avrebbe potuto farsi strada il panico.
Perché il panico fa sempre fare cose stupide.

Come fosse divenuto una sorta di rituale, feci scorrere nuovamente le dita lungo la corda tesa, come ad accarezzarla, come se potessi, in tal modo, rincuorare il compagno.
Forza, sono qui. Non vado da nessuna parte, ti tengo”.
Tutti pensieri ovvi, ma che infondono sempre una certa fiducia nei momenti e nei passaggi più difficili.
Non vado da nessuna parte”.
Ovvio, eravamo legati assieme, dove sarei potuto andare?
Eppure, solo in quel momento mi resi veramente conto di cosa vuol dire essere una cordata.

Molte volte, specialmente con chi non arrampica, avevo parlato del “valore” della cordata, del fatto che si è uniti nelle difficoltà, che si mette la propria vita nelle mani dell’altro, e via discorrendo.
Eppure, ogni volta, quando mi capitava di uscire per primo da una via, dentro di me mi consideravo arrivato.
Una volta fuori dalle difficoltà, era finita.
Quel giorno invece, su quella sosta, capii che nulla è finito finché non si è entrambi arrivati.

Quel giorno eravamo veramente diventati una cordata.
La corda che avevo tra le dita si allentò un poco.
Recuperai.
Si allentò nuovamente e recuperai altri centimetri.
Poi ancora.
E ancora.
Stava salendo.

La corda, che si andava sempre più accumulando, mi diceva che mio fratello aveva superato le fessure ed ora stava salendo l’ultima rampa prima di raggiungere il bosco.
Mi sporsi un poco e vidi il caschetto viola più in basso salire rapidamente.
Una decina di minuti dopo Ema mi raggiunse in sosta.
Occhi negli occhi.
Un sorriso si fece strada sui volti stanchi e provati.
«Sei arrivato, né?».

«Non c’è una casa.
Siamo esseri sbattuti,
nudi,
al freddo rapace delle nostre ossessioni»1

_____
1 ) La frase che mio fratello scrisse sul libro di vetta. Tratta da “Pangea, Rivista avventuriera di cultura & idee – www.pangea.news/hitchcock-4-film-imperdibili”.

Paolo Colombo

Paolo Colombo

Sono Paolo Colombo, da Agrate Brianza. Bassa Brianza, l'ultima Brianza, quella un po' meno verde e un po' più piatta. Da lì in basso, tuttavia, le montagne si vedono bene, molto bene. Una corona che adorna l'orizzonte. Un simbolo che unisce, in un unico confine fra cielo e terra, comasco, lecchese e bergamasco.
Ed oltre. Ed è quell'oltre, quel desiderio di andare più in là, oltre il quotidiano, oltre l'orizzontale, oltre la gravità, oltre noi stessi (o forse verso noi stessi) che mi ha sempre spinto verso le terre alte. Sono un biotecnologo, ma il mio laboratorio preferito rimane sempre e comunque la natura.


Il mio blog | Dopo infiniti tentennamenti mi sono infine deciso ad aprire un blog che raccogliesse queste storie. Un piccolo rifugio, o meglio, una tana, che potesse offrire qualche momento di svago ai vagabondi del web che vi si fossero imbattuti. Il blog si chiama La Tana di Birillo, dal nome del protagonista di uno dei racconti, ed è un piccolo omaggio al Richiamo della foresta.
Link al blog

4 commenti:

  1. Tina ha detto:

    Io sono di mare, lontano da me l’idea della montagna che vedo immensa , ammaliatrice e minacciosa. Questo racconto però è affascinante,la salita, la fatica, la preoccupazione per il compagno è un inno di amore alla Natura.

    1. Paolo Paolo ha detto:

      Ciao Tina!
      E’ vero, questo racconto è anche un inno di amore verso la natura, perché da lei possiamo sempre trarre insegnamento.

  2. Manu ha detto:

    Per alcuni anni io e mio marito abbiamo arrampicato assieme. Sono passati più di vent’anni da allora, ma ricordo ancora le emozioni e le sensazioni che Paolo descrive così bene nel suo racconto. La corda diventa un “cordone ombelicale” attraverso il quale si condividono pensieri ed emozioni, tanto che ad un certo punto le parole non servono più ed è sufficiente guardarsi “occhi negli occhi”.

    1. Paolo Paolo ha detto:

      Ciao Manu!
      Che meraviglia, essere legati nella vita ed in parete dev’essere qualcosa di doppiamente unico.

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