Racconto

Tra Venezia e le montagne #2

testo di Andrea Nicolussi Golo

Cima Portule (ph. Roberto Zanin)
04/05/2019
8 min

Nella seconda e ultima parte del racconto di Andrea Nicolussi Golo, il vecchio lascia Venezia per raggiungere le montagne dell’Altopiano dei Sette Comuni. Protagoniste sono tre donne: la giovane pittrice Clio, la pastora slava e la vecchia signora cimbra vestita di nero. Ognuna di loro porta con sé un mistero: sono il futuro, il presente e il passato di una terra diversa, come l’epilogo di questa storia che chi ha visto e scritto vorrebbe diverso. E così il vecchio dalla barba bianca ha una storia con un finale diverso, quasi a sperare, ad illudersi che il destino del suo popolo potesse essere diverso.
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» leggi la 1a parte «

TRA VENEZIA E LE MONTAGNE #2

È notte fonda quando la piccola automobile, guidata da un giovane chauffeur di paese, lascia l’autostrada per arrampicarsi sui tornanti che portano in Altipiano, sul sedile di dietro il vecchio si addormenta di un sonno leggero che forse sonno non è, ma solo uno straordinario benessere che gli permette di riordinare a uno a uno gli eventi della sua lunga vita, da quelli più lontani e tragici a quelli appena capitati.
Di tutte le persone, gli scrittori importanti, gli artisti della biennale, i registi acclamati e i politici venuti apposta da Roma per tirarlo dalla loro parte, di tutta quella gente che aveva incontrato negli ultimi giorni nella città della laguna, il vecchio ora ricorda solo la ragazza che parlava l’antica lingua e sul suo viso la geografia di rughe si distende in un sorriso beato.

Quando arrivano, la piazza del piccolo paese è deserta, con un po’ di fatica l’uomo scende dall’auto e assieme alla notte, dalla sua montagna, gli viene incontro l’odore dell’autunno. L’autunno, ha una sua fragranza, aspra forse, ma capace di penetrare l’anima dalle narici, pochi la riconoscono. È l’aroma di ortica fradicia, impastato a quello delle foglie appena cadute e al primo odore di legna bruciata e di vento da sud umido ma ancora tiepido, un fiato della terra che non vuole ancora cedere al generale inverno.

La vita, in fondo, altro non è che un lungo cammino di odori sfuggenti. La vita incomincia con il profumo di èstle, come la madre chiamava l’odore di nido, l’odore di culla, continua con quello incerto dei fiori quando, adolescenti ci si perde a giocare a nascondino nei prati, poi senza preavviso, l’odore forte dei corpi dei vent’anni è già un ricordo e non rimane che un tenero odore di bucato. Negli anni migliori si gode dell’odore di polenta e di crauti e quello del vino vecchio e del fieno, l’odore di scuola e di stalla e l’odore della neve che solo il cuore impara. Ma alla fine, comunque siano corse le stagioni, l’odore dell’autunno è l’ultimo ad aspettarci.
Respira forte il vecchio come per riappropriarsi della propria aria.
L’alba della luna straccia le nuvole e dalle nuvole il profilo delle montagne, contro il cielo di maiolica blu, sembra infinitamente più alto del solito.

Il giorno dopo, come se il caso giocasse a sorprendere, proprio davanti alla sua piccola casa, Pietro scopre, meravigliato e divertito, il piccolo gregge di quella giovane bosniaca dal nome impronunciabile. La ragazza, era fuggita da Srebrenica dopo la mattanza, e qua in Italia aveva incontrato un ragazzo più o meno dei suoi anni che faceva il pastore, e questi, senza nulla chiedere in cambio, la aiutò a costruirsi un piccolo gregge che lei adesso porta avanti da sola. Sarebbe una bella storia da raccontare, pensa l’uomo delle montagne, se non fosse che lui se la ricordava bene la prima volta che sul sentiero alto del Portule i suoi passi incrociarono quelli della ragazza di Bosnia, con un gesto spontaneo le si avvicinò tendendole la mano, lei corse a nascondersi dentro una muga e incominciò a tremare come una bianca betulla nella tempesta, non sopportava più, lo avrebbe scoperto solo più tardi, la vicinanza di un uomo. Chissà, forse sarebbe stata quella la storia da raccontare, una brutta storia di cui anche lui, italiano, europeo e uomo si vergogna al punto da nasconderla anche a sé stesso.

Pietro cerca di scacciare i brutti pensieri e come fa da qualche anno, si incammina verso il vecchio furgone Volkswagen per invitare la donna a casa sua, dove come sempre, le avrebbe offerto una cioccolata bollente e densa, quasi un budino, di cui vanno entrambi ghiotti senza vergogna e senza colpa. L’uomo e la pastora si abbracciano a lungo, è una prova di fiducia di cui Pietro è fiero. Davanti alla cioccolata calda, nella quiete della casa la ragazza con soddisfazione mista a sarcasmo commenta la notizia di quei giorni: «Hai saputo Pietro che hanno condannato gli olandesi per tre morti». Si riferiva al ruolo avuto dai caschi blu olandesi nei giorni del massacro. «Già», risponde lui, ma benché si senta ancora una volta profondamente vigliacco, non ha voglia di sciupare la gioia dell’incontro e la luce di quella giornata di sole, che poteva anche essere l’ultima prima della neve, con ricordi cupi e dolorosi.

Non possiamo volergliene al vecchio per questo, perché quando incominci a sentire sempre più distintamente il suono della viola con cui si accompagna la signora che tutto dispone, ogni istante diventa spaventosamente prezioso. Così Pietro incomincia a raccontare alla pastora bosniaca di quella ragazzina dai capelli quasi rossi che parlava la lingua antica dei padri. Le fa vedere il disegno che tiene ancora arrotolato accanto al bagaglio e la pastora prorompe con un fischio sonoro, lo stesso con cui chiama i suoi cani, ma questa volta è un fischio incontenibile di meraviglia e ammirazione, «Ma… sono le mie pecore! Queste sono le mie pecore! Le riconosco una per una. Come ha fatto a conoscerle quella ragazzina di città?».
«Oh beh, le ha semplicemente copiate da un mio vecchio amico pittore».

Sono dolci le sere d’ottobre, dolci come l’uva zibibbo sebbene si incamminino spedite verso la notte misteriosa dei morti. Il vecchio e la donna passano gran parte delle ore seduti sulla panca della legna accanto al fuoco a parlare, parlano di guerre, di odi senza senso, di violenze senza nome. «Succede sempre cosi – dice il vecchio – quando, per chissà quale misteriosa alchimia, gli uomini imparano il valore della convivenza pacifica capita sempre qualcosa che rompe tutto, cosi è stato per la prima guerra del secolo scorso, quassù passavano da una parte all’altra della frontiera senza difficoltà e arrivavano fino nella Russia degli zar e poi all’improvviso si sono presi a cannonate…».
Per fortuna nelle ore lunghe della sera si parla anche di pascoli e pecore, di fieno e permessi di transito per le greggi e la volta che passa il Paulin con la sua fisarmonica assieme a qualche altro compaesano si tira tardi cantando e bevendo vino caldo.

Un mattino, avvisata da chissà quale segno ancestrale, la pastora mette in movimento le sue pecore, è arrivato il tempo di scendere definitivamente in pianura per quest’anno, i due amici si salutano con commozione dandosi appuntamento per l’autunno successivo. «Mi raccomando Pietro fagli una bella cornice a quel disegno perché se lo merita», sono queste le ultime parole gridate dalla donna che si spengono in un eco lontano.
Due giorni dopo la partenza delle pecore, mezzo metro di neve arriva a coprire la contrada e i boschi e dalle cime si sente il cupo rotolare delle valanghe.
Il dio dell’inverno un’altra volta ancora ha steso la sua mano gelata sulla nostra terra e non è davvero un dio benevolo l’inverno per un vecchio. L’inverno è stagione di pazienza e i vecchi sono impazienti di vivere, perché sanno che il loro tempo è breve. Pietro no, lui è diverso, ha imparato la pazienza in inverni lontani e cupi, di neve nera, così non fa altro che piegarsi come l’erba sotto la carezza del vento per farsi passare sopra l’inverno come la mano di una madre a scompigliare i capelli.
Per quanto possa essere aspro e duro l’inverno, la stagione delle rose ritorna sempre, magari un po’ più tardi, magari trascinando con sé ancora qualche giornata grigia e fredda che fa arrabbiare i pastori che sono già saliti in quota, magari portandosi via qualche cucciolo di cervide venuto al mondo troppo presto, ma alla fine spuntano i primi boccioli e tutto si dimentica in fretta.

Con le rose torna anche la voglia di nuova vita. Pietro si sente nel naso, in gola e sullo stomaco quella sensazione che si ha da convalescenti, uno strano gusto, che volge il pensiero alla malinconia, senza capirne la ragione. Così la sera del giorno di giugno in cui compie gli anni, per sconfiggere quella mollezza decide sia giusto festeggiare; come di consueto prima passa dal cimitero a portare un fiore sulla tomba dei genitori, poi all’ora giusta, né troppo presto, né troppo tardi con il figlio e alcuni amici e la compagna di tutta la vita, vanno tutti in una pizzeria appena fuori paese. Non si stupisce il vecchio montanaro, quando riconosce quella voce, cosi diversa da tutte le voci che si incrociavano nel locale. «I signori hanno già ordinato?». «Clio, cosa ci fai quassù lontano da casa?». «Signor Pietro, che gioia incontrarla. Ho scelto di venire a fare la stagione in Altipiano, volevo conoscere le montagne dei miei vecchi». Questa volta a differenza di Venezia i commensali si guardano stupiti quando i due incominciano a parlare fra loro fitto, fitto nell’antica lingua, i cui suoni germanici si colorano di accenti veneti e arcaiche parole latine.

Sono dolci le sere d’ottobre, dolci come l’uva zibibbo sebbene si incamminino spedite verso la notte misteriosa dei morti. 
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin
  • ph. Roberto Zanin

Lingua misteriosa il cimbro, che alcuni vorrebbero fosse semplicemente una sorta di bavarese medioevale, ma di questo il vecchio non è mai stato convinto; dove avrebbero imparato il latino nel 1200 dei poveri roncadori baiuvari?
L’uomo delle montagne racconta alla ragazza di pianura della pastora bosniaca, che aveva riconosciuto le proprie pecore nel disegno che lei gli aveva fatto a Venezia e ancora di altre cose a proposito di quella donna. «Vorrei conoscere questa signora forte che custodisce le pecore». Nonostante il condizionale nella voce della ragazza c’è tutta l’ansia di un ordine, cosi, senza perdere tempo, i due si accordano per il mercoledì successivo, giorno di riposo della ragazza, per salire ai pascoli alti del Portule e incontrare la pastora.

Il giorno in cui il vecchio e la ragazza salgono a trovare la pastora, è di quelli che il Signore del mondo regala ogni tanto (con parsimonia) agli umani per consolarli dell’esistere. Cuscini di giacinti selvatici e botton d’oro finiscono a ridosso dell’ultimo fazzoletto di neve che un sole ormai d’estate fa luccicare come un solitario sull’anello di una sposa all’altare. Le pecore pascolano tranquille, batuffoli di lana trasportate qua e là dalla brezza di quota; sì, non poteva che essere così quel paradiso che gli uomini e le donne si sono giocati per un frutto acerbo.
La pastora è intenta ad arrostire una grossa fetta di polenta sulla piastra del focolare quando loro semplicemente spingendo la porta socchiusa entrano, la donna appena riconosce Pietro gli corre incontro a lo abbraccia e poi  riconosce  Clio. «Anche se non ti ho mai vista so chi sei, Pietro mi ha fatto vedere il tuo disegno e mi ha parlato di te a lungo» La ragazza di città tende la mano e con meraviglia riceve in cambio la stessa stretta forte che le era solito dare, ma mai di riavere. È emozionata Clio, emozionata e curiosa, ha voglia di conoscere nei più piccoli particolari la vita dei pastori, va avanti e indietro, è un naufrago che finalmente appoggia il piede sulla terra ferma, ogni cosa la attrae e la incanta.

La pastora aggiunge alcune fette di polenta sulla piastra e dei grossi pezzi di tosella, quel cibo rustico arrostendo sfrigola e nella hütt si spande un profumo che da solo vale un’amicizia. In mezzo alla tavola compaiono per magia anche due bottiglie di quel vino illegale che colora di viola le labbra, il Clinton, che in Altipiano spesso chiamano Grinto, un nome che gli si adatta meglio. La donna di Bosnia non si toglie il cappellaccio con paraorecchie, ché in montagna anche le giornate più luminose nascondono un brivido di freddo. Mentre mangiano, il vecchio pilucca come farebbe un uccellino troppo sazio di milio e sole, la ragazza di pianura si incanta ad osservare la donna di Bosnia e quasi furtiva traccia segni con la piccola matita sopra fogli da acquerello. Finito di mangiare Clio non riesce più a tacere: «Devo farti un ritratto, ma un ritratto vero, non un semplice disegno come quello che ho regalato a Pietro, voglio fare un dipinto a olio e mi dispiace ma ci vorrà del tempo e tu dovrai avere molta pazienza con me.»

Quell’estate, Pietro lo viene a sapere dal gestore della pizzeria, Clio aveva preso l’abitudine di raggiungere la pastora ogni giorno libero e sul finire di agosto con la fine del periodo di maggior lavoro, aveva lasciato la pizzeria e si era trasferita armi e colori sulla montagna “con quella delle pecore” gli dicono.
Una domenica mattina di inizio settembre Pietro si decide di andare a trovare le due donne, infila nello zaino un paio di quelle bottiglie di vino forte che avevano fatto loro compagnia la volta precedente, telefona alla pastora e si fa dire dove si trova con il gregge e con passo sicuro si mette in cammino. Il gregge gli viene incontro verso mezzogiorno, ormai a mezza montagna, dalle parti del Tèrmar. È gioia vera quell’incontrarsi in un crocicchio di strade, tra Trentino e Veneto, dove un tempo correva l’antico confine tra gli imperi centrali e la serenissima repubblica di San Marco e che festa di polenta e formaggio, seduti accanto al furgone Volkswagen. La pastora non si toglie il pesante giaccone di pelle imbottito, ché in montagna anche la più serena delle giornate può finire in un brivido di freddo… Parlano di pecore, e della lana che non la vuole più nessuno e che bisogna pagare per smaltirla come rifiuto speciale e che ormai l’unico guadagno di un gregge è la vendita degli agnelli da carne, una cosa che farebbe mordere di rabbia Tönle Bintarn: «Gli agnelli sono nati per crescere e fare lana non per finire nel piatto dei signori ufficiali.» diceva sempre l’antico pastore. Parlano di pittura e di come certe volte la montagna si mostri proprio come un quadro di Giovanni Segantini, il pittore di Arco che visse a Maloia in Engadina, grande ritrattista di pecore e vacche. Parlano a lungo della passione di Clio per la montagna e per le sue bestie e di come avesse deciso di rimanere a dare una mano alla pastora per il prossimo autunno, poi si vedrà.

Pietro non lo da a vedere ma è già da un po’ di tempo che vede la donna vestita di nero strisciare guardinga tra un larice, un ginepro e i maestosi abeti bianchi, non vuole essere vista e solo chi sa di bosco può individuarne di tanto in tanto il suo apparire. Pietro attende il momento opportuno, quando la donna esce dalla macchia e rimane per un attimo allo scoperto in una radura.
«Khennt Stinele, zo trinkha an slunt boi.» La signora cimbra alza un braccio per saluto e di risposta all’invito di bere un goccio di vino, conosce il vecchio con la barba bianca e sa di potersi fidare, porta sempre un vino robusto e forte che non toglie la forza, ma da coraggio. Non si perde in inutili smancerie la donna vestita di nero com’è d’uso tra gente di montagna, sorride appena alle parole nell’antica lingua pronunciate dalla ragazza di città, beve il suo vino in un solo sorso e allunga il bicchiere per averne dell’altro, mentre con il dorso della mano si asciuga le labbra, poi come colpita da un pensiero cattivo si stringe  forte nello scialle nero, un brivido senza preavviso le fa accapponare la pelle. Saluta appena, la donna, mormorando Vorgèll’z Gott: che Dio ve ne renda merito e va via a piccoli passi veloci, appena oltrepassata la curva del sentiero,  traccia nell’aria un segno della croce ampio e solenne e pronuncia uno scongiuro potente come nemmeno di fronte alle tentazioni del maligno aveva mai fatto.
Il gruppetto segue per un attimo l’ombra nera di lutto tornare a confondersi con gli spiriti inquieti della foresta.

Pietro lascia le due donne quando ormai il sole è scomparso da un po’ oltre la piana di Vezzena. La giornata è stata  buona e felice ma una strana sensazione accompagna l’uomo delle montagne come se qualcosa quel giorno non fosse stato detto, e poi che strano, Clio non gli aveva mostrato qualche suo lavoro, il ritratto della pastora per esempio, non ne aveva nemmeno accennato. Stringe forte la cacciatora, per un attimo anche lui avverte un freddo strano per quella stagione e una striscia di nebbia sale prepotente nel cuore della valle.

Non passano molti giorni e le notizie questa volta, Pietro, non deve andare a cercarsele, ne parlarono in molti sull’Altipiano e qualcosa ne hanno scritto anche i giornali nella cronaca locale, incidente hanno scritto, inspiegabile hanno anche aggiunto alcuni.
È una lunga pena, l’attesa del gregge in quei giorni di novembre, per il vecchio che vegliava sulle stagioni e contava i metri di neve accumulati negli anni. Ma una mattina, puntuali, le pecore di razza foza si presentano pacifiche e silenziose attorno alla casa del montanaro, il furgone Volkswagen è guidato dall’uomo generoso che aveva dato il gregge alla donna di Bosnia, a piedi Clio da qualche voce ai cani. Non c’è festa nell’incontrarsi, tutti hanno gli occhi nascosti, solo Clio infrange il silenzio quando diventa troppo doloroso da reggere, lo fa con una domanda che non può avere risposte: «Perché?».

Troppo dolore vorrebbe dire il vecchio, troppo dolore; il dolore non passa, si inabissa e scava l’anima in profondità sino a che non rimane che un guscio vuoto che puoi gettare dall’alto di una roccia senza nemmeno un grido.

Ne passano ancora di giorni, prima che la ragazza di pianura si decida di bussare alla porta della piccola casa, tiene in braccio qualcosa di ingombrante, che quasi le cade per terra nell’ansia di stringere con entrambe le mani quelle del vecchio: «Credo che lei avrebbe voluto che lo tenessi tu il suo viso sulla tela, non sono stata brava come credevo, ne ho dipinto gli occhi ma non sono riuscita a trattenerne l’anima, alla fine lei ha fatto quello che ha creduto giusto fare e se ne è andata portandosi dietro lo zaino segreto che la accompagnava da quei giorni di Srebrenica». La ragazza si passa la manica della maglia sugli gli occhi come per asciugare le lacrime, ma gli occhi rimangono secchi.
«Tieni le mie pecore, così mi ha detto, sono state le sue ultime parole, ed io è questo che farò».
«Già» la sola parola detta dal vecchio, mentre scruta attento quegli occhi leggermente allungati resi sulla tela da pennellate rapide e nervose intrise di blu oltremare, non aveva mai notato quanto su quel volto, in quegli occhi di notte scura si leggesse lo spirito slavo.

Cosi finisce questa storia, cosi finisce il racconto di me che ho visto e scritto, così finisce di raccontare il contastorie, ma per una volta, solo per questa volta a te che leggi chiedo un favore, lascia che usurpi il nome di scrittore e da scrittore di fantasie lascia che scelga io il finale di questa storia e io non permetterò che sia questo il finale e mi arrogo il diritto di scriverne un altro.

Dalla cima della montagna dal nome incantato da dove Musil guardava verso la Laguna e da dove nei giorni sereni si può vedere il Campanile di San Marco, il vecchio con la barba bianca tiene gli occhi chiusi a taglio per seguire il lento andare di un gregge attraverso la grande pianura e in fondo all’orizzonte, una pioggia d’oro cade sui marmi delle chiese millenarie, due ragazze seguono le pecore, ogni tanto si spintonano, poi giocano a rincorrersi, le loro risate d’argento arrivano sin quassù, il vecchio sorride, tira una grossa presa di tabacco e si lascia scappare un sospiro: «Beata gioventù!»
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Saluta appena, la donna, mormorando Vorgèll’z Gott: che Dio ve ne renda merito e va via a piccoli passi veloci.
Andrea Nicolussi Golo

Andrea Nicolussi Golo

Responsabile dello sportello Linguistico della Magnifica Comunità degli Altipiani Cimbri, collabora con l’Istituto Cimbro di Luserna/Lusérnar Kulturinstitut. Ha pubblicato il libro di racconti Guardiano di Stelle e di vacche (2010), e i due romanzi Diritto di Memoria (2014) e Di roccia di neve di piombo (2016), quest’ultimo finalista e segnalato ai Premi ITAS, Rigoni Stern e Leggimontagna. Nel 2011 è stato insignito del premio “Ostana scritture in lingua madre”. Ha vinto numerosi concorsi di poesia sia in lingua cimbra che in italiano e nel 2013, su autorizzazione Einaudi, ha dato alle stampe la traduzione in lingua cimbra del capolavoro di Mario Rigoni Stern Storia di Tönle. Nel 2016 ha pubblicato la traduzione in cimbro de "Il piccolo principe", nel 2018 la versione integrale di "Pinocchio" e nel 2021 "Il sergente nella neve". Per l’Istituto Cimbro di Luserna ha pubblicato varie favole per bambini.


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