La accarezzo mentre penso a sette anni fa, quando lo trovammo odoroso di resine e fumo, abbattuto dal fulmine. Era come un gigante pallido sdraiato di traverso in una radura ammutolita nel timore di disturbarne il sonno. Mi chiedo se alle pietre stanche della baita Taina manca l’ombra lunga del gigante del bosco.
Quest’anno, mentre saliamo lungo il sentiero che serpeggia nell’abetaia, per un attimo una grossa volpe dalla coda argentea e nera, ci osserva e poi sfugge zigzagando tra i pecci, silenziosa sul muschio. Scopriamo che Nevaio Esausto si sta sciogliendo e che lo scheletro del Vecchio Peccio è stato spostato: rimangono pezzi del suo corpo immenso accatastati nella radura dove ora, dopo anni e anni, il sole entra a far appassire gli ultimi crochi, a seccare i licheni, mentre nelle foppe si scurisce la neve stanca. Tutto sembra mutare, eppure è come se restasse immobile. Noi siamo ancora qui, anno dopo anno, percorriamo questo percorso iniziatico nel pieno della primavera, agli inizi di maggio. La celebrazione delle prime notti calde dell’anno, quando è possibile accamparsi a quote non troppo elevate, ma godere dell’aria tersa e del rumore impetuoso delle valli ricolme delle acque di scioglimento delle nevi.
Nevaio Esausto si scioglie, ma è ancora lì, questo è ancora il suo tempo. È cupo e rumoroso delle acque che gli scorrono sotto, erodendolo dall’interno, mentre carcasse di alberi abbattuti e massi incastrati tra radici divelte si assembrano ai suoi piedi, molli, pucciati nell’acqua ancora fredda del torrente della Val di Vai. Nevaio Esausto è uno i pochi relitti dell’inverno che si ostina a rimanere nella cupa forra, nella quale si è accresciuto delle slavine devastanti di un intenso inverno nevoso.