Mi affido al sibilo leggero del vento, ai raggi mattutini del sole quando, da est, fa capolino al di sopra delle mie creste oppure al rosso vivo e talvolta impertinente del tramonto che sovente imporpora sanguigno le mie cime.
Non mi senti ancora?
Diciamo pure che hai perso la facoltà di ascoltarmi. Non hai più il tempo per accorgerti di quello che sta accadendo attorno preso come sei da te stesso. Pensi di essere il centro del mondo e persino dell’universo, ne sei così sicuro che sei arrivato a sfruttare tutto quello che ti sta attorno, senza farti domande, senza chiedere mai il permesso. Anzi, negli ultimi anni – per me che sono antica sono gli ultimi centocinquanta, duecento – hai iniziato anche a darmi mille aggettivi. Mi hai chiamato ingrata, matrigna, persino assassina.
Non mi senti proprio?
Hai smarrito allora la possibilità di aprire il cuore, perché certe cose non si odono con le orecchie, si ascoltano con il cuore.
I tuoi bisnonni o trisavoli ascoltavano bene la mia voce, la riconoscevano e addirittura mi temevano ma non perché avessero paura di me, no, perché pensavano che io fossi viva. Nel senso proprio di vivente.
Erano grati per tutto ciò che offrivo loro: quello che occorreva per sfamarsi: mirtilli, lamponi, funghi, erbe selvatiche. Curavano tutte le ferite con le mie piante, sia quelle del corpo che quelle dello spirito.
Erano grati per il legname che prendevano dai miei alberi secolari, sapevano quali tagliare per non denudare il mio fianco e quali far crescere per avere poi assi sicure per i tetti delle case; cosa potevano bruciare per riscaldarsi d’inverno e cosa conservare affinché le radici si intrecciassero per trattenere lo strato di terra.
Cacciavano gli animali che da sempre hanno trovato riposo negli anfratti che ho creato per loro: gli orsi, i cervi, i caprioli, gli stambecchi, i camosci, le lepri, le marmotte. Ne facevano carne da mangiare e pelli per coprirsi.
Quando salivano arrivavano fin dove i mughi coprivano la roccia, più in su evitavano, avevano una sorta di religioso timore, come paura dell’ignoto, di quello che avrebbero potuto scoprire. Le altezze, pensavano un tempo, non sono fatte per l’uomo ma per la divinità.
Ascoltavano i segnali che arrivavano dal cielo, le nuvole che prima di riversare acqua alla pianura inanellavano le mie cime, dalla loro disposizione i tuoi avi sapevano se dovevano raccogliere il fieno oppure no.
La pioggia, che dire della pioggia? Ogni scroscio si è portato a valle un po’ della mia “pelle”, sassi piccoli e grandi che scendendo lungo i rivi e i ruscelli hanno consentito di avere la ghiaia da macinare per fare case.
I tuoi avi hanno squadrato le pietre più grosse e sono diventate dimora per uomini e animali, ovili e chiese, scuole e stalle, stavoli e dimore. Loro lo sapevano, erano consapevoli di abitare dentro rifugi ricavati da me.