DUE. Il Porto di Ulisse
Ore 14. All’ombra magra di un alberello di sughero mando giù una pastiglia di potassio e magnesio senza scioglierla in acqua per risparmiare riserve. La bocca si riempie di una schiuma orribile e sono convinto di aver sbagliato qualcosa. All’appello mi manca un mezzolitro, ci rimangono appena 300 cl di acqua in due e un numero di ore indeterminabile davanti. E se il rifornimento non arrivasse? Se dovessimo resistere una notte e un giorno ancora così? La situazione diventerebbe decisamente preoccupante, considerando che il primo punto di appoggio è minimo a tre ore di cammino nella macchia più feroce e implica la risalita di uno dei tanti bacu che scendono dall’altipiano al mare. Dobbiamo sperare che il rifornimento ci sia, in poche parole. E sperare di arrivarci, cosa non scontata.
Oggi io e Graziella siamo veramente una cordata. Forse un’esperienza che non ci era mai capitata prima. Siamo soli come su una parete, qui. Lontani da tutto, imprigionati tra la terra e il mare, come tra il cielo e la roccia. Quel mare che è speranza e tortura al tempo stesso. Una distesa d’acqua troppo salata per saziare la nostra sete e troppo lontana per essere la nostra fuga. Giocoforza, dovremo ancora trovare la nostra via leggendo le pieghe della terra. Ometto dopo ometto, rintracciando come rabdomanti sporadici bolli blu ci facciamo avanti.
Ci affacciamo nel Bacu Tenadili, chiave di accesso al porto della salvezza. In fondo al vallone, la carcasse di un caprone morto giace in quel silenzio che solo la morte sa creare. Bisogna superare una paretina di terzo, immeritatamente ripida ed esposta che di fatto è il nostro passaggio chiave e ha sempre il suo fascino inquietante. Bisogna arrampicare per davvero! Il calcolo dei metri di cordino si rivela giusto al millimetro e riesco a recuperare Graziella che se la cava alla grande anche all’ottava ora di marcia, confermando che la tempra femminile è tanto insospettabile quanto superiore a quella maschile.
Ci lasciamo quindi dietro il caprone e il bacu, affacciandoci sull’insenatura di Porto Pedrosu.
Costantemente in bilico tra mare e terra
Ore 18. Non sono bastati gli anni passati a cercare gli attacchi delle vie, concatenando linee di cenge come i puntini di un quiz. E nemmeno certi canaloni scesi nel white out delle nevicate. No, dovevo venire qui, in questa costa ruvida, costantemente in bilico tra mare e terra, per ritrovare il piacere di “cercare”.
Mi faccio avanti nella macchia, aprendo un varco tra cespugli di ginepro e corbezzoli. Mani di resina, piedi trafitti dalle pietre appuntite, spalle collassate dal peso e dal sole che batte impietoso. Eppure lo sapevo che il Selvaggio poteva essere una trappola. Maledico la cartina muta, il libretto di istruzioni e la mia scarsa abilità in geometria. Ripenso agli ineffabili istruttori di un corso CAI che sogghignano di fronte alla mia poco scientifica capacità di orientamento snocciolandomi la teoria del falso obiettivo e della triangolazione. Chissà se ce la farebbero a venire fuori da qui, quando la famigerata “quota 81” che dovrebbe farmi da riferimento risulta invisibile nel folto della giungla in cui siamo affogati. Vado avanti a tastoni, bisogna essere animali prima che uomini qua. Annusare la terra, toccare gli alberi, per capire se c’è qualche traccia di passaggio. Segni di scarpe, un rametto spezzato.
Segni di suole. Un accenno di traccia. Un segno!
Forse ci siamo. Riappare una traccia, la seguo dieci metri, poi scompare come un fantasma. Credo di impazzire, nella ora crepuscolare vedo un segno blu ma è e solo l’ombra in un sasso. 300 cl di acqua non ci basteranno e Graziella si lascia andare in un sconsolante “se non troviamo l’acqua entro mezzora sarò cibo per mosche”. Ripenso al numero di Vertical, al Freney e scorgo inquietanti analogie.
Tutto questo sembra uno scherzo poco divertente. I segni blu ci accompagnano con la traccia evidente e scompaiono quando questa viene inghiottita dalla selva. Di nuovo vago a tentoni inventandomi una traccia che non c’è, mentre il rumore del mare si fa sempre più vicino e per certi versi angosciante. Da un lato ci sono le scogliere, dall’altra la giungla. La via è in mezzo, ma non si vede ed ogni metro percorso sembra valerne cento.
Poi un’intuizione. Fuggo dal cuore della selva più fitta e ormai semibuia, scavalco una dorsale di bosco più rado dove una maggiore luminosità lascia intuire spazio e quindi visibilità. L’intuizione è giusta. Anche se la dorsale non risolve nulla come visibilità mi fa incontrare un minuscolo ometto – appena due pietre accostate non naturalmente. Più in là un altro più “adulto”. Infine segni di suole. Un accenno di traccia. Un segno!
Lo scherzo è finito, mi sembra di sentire ridere la signorina dell’ostello e tutto il complotto locale contro gli escursionisti senza guida. Slego Graziella che scende con imprevedibile spensieratezza l’ultimo tratto esposto mentre corro verso la caletta. Un bosco accogliente, una panca…la cassa dei viveri!
Mi sento Robinson Crusoe mentre strappo la bottiglia d’acqua, la bevo a collo e così come sono mi butto nell’acqua del fiordo di Porto Pedrosu. Soli, ma non cibo per mosche e nemmeno carcasse di caproni, prepariamo il bivacco più bello, in fondo ad un insenatura che ha qualcosa di epico. Come l’ultimo porto di Ulisse.