Sapeva che sarebbe morto, ma non riusciva ad immaginare quel giorno.
Era ammalato di Parkinson, oramai non camminava più, le gambe erano due tronchi inchiodati sul pavimento.
Riccardo era salito al Quintino Sella, il ghiacciaio era scomparso, pietre nere e un silenzio strano. Carlo guardò i ramponi e mentre ascoltava il nipote, chiuse gli occhi appesantiti dai farmaci.
Stava camminando seguendo un invisibile traccia e pregava sentendo il boato dei seracchi che si staccavano nascosti tra le nuvole.
I ramponi si aggrappavano al ghiaccio, era tutto così dolce e freddo, senza senso, una vita passata a salire creste, tra cornici infide e una famiglia da mantenere, il fascino oscuro dei crepacci, il terrore di precipitare in quel nulla senza fine, e ora la morte.
Carlo amava il bianco, il rumore dei ramponi sulla neve, far scivolare la farina tra le mani, il sole che rimbalzava sul ghiacciaio e scaldava il viso, la piccozza conficcata in quella solitudine che solo a lui apparteneva, le guance rosse e i baffi bianchi sporchi di farina e ghiaccio.
Poi era arrivata la bufera, il cielo grigio della malattia, il vento schiaffeggiava il corpo, i ramponi si erano spezzati sulle rocce e lui era caduto.
La carne di notte bruciava, i ghiacciai sparivano, il fuoco stava sciogliendo la sua vita.
Desiderava stringere tra le mani il ghiaccio, annusarlo, macinare il grano, sentire le dita intorpidirsi e sbatterle sulle gambe.
Ora doveva andare, si caricò sulle spalle un sacco di farina e lento risalì il pendio, guardò le pareti azzurre del crepaccio e sorridendo si lasciò cadere.
Non c’era dolore quando cadde sul fondo, lontano brillava il sole.
Stava nevicando o forse era farina.
Finalmente era a casa.