Ci pensate? La prima cordata italiana di sole donne a caccia di una cima himalayana. Era il 1983 e l’alpinismo femminile era ancora un territorio poco raccontato, sminuito, per lo più ignorato. Ma quelle otto donne sono state delle pioniere a tutti gli effetti, in montagna come nel superare i pregiudizi di genere.
Dopo più di quarant’anni da quel tentativo di salita, Alessandra Gaffur(1), medico veterinario, alpinista, accademica del Club Alpino Accademico Italiano, me lo racconta ancora con emozione e un briciolo di nostalgia. E non è solo per i vent’anni di allora, età che regala quella sana spavalderia che ti fa credere di poter conquistare il mondo, ma per quell’atmosfera magica che si era creata nel gruppo. Chiamatela amicizia, sorellanza, ma quelle donne che arrivavano da percorsi diversi erano riuscite a trasformare un’idea temeraria in un progetto serio, importante. Unico.
L’idea che cambiò tutto
L’intenzione di scalare una montagna himalayana era arrivata da Silvia Metzeltin, geologa, alpinista, giornalista e scrittrice svizzera che sentiva la necessità di dare finalmente la giusta visibilità all’alpinismo femminile. «Conobbi la Metzeltin nel 1983, grazie ad Annelise Rochart, torinese del Gruppo Accademico Occidentale del Cai, che mi invitò a partecipare al raduno femminile Rendez-vous d’haute montagne2 ad Agordo, in Veneto, evento frequentato da alpiniste forti come Loulou Boulaz, Luisa Jovane, Nadja Fajdiga. In quegli anni c’era una voglia pazzesca di confrontarsi, di raccontare le proprie esperienze, di vivere la montagna senza cadere nella trappola della competizione», racconta Alessandra.
Fu proprio in quell’occasione che Silvia Metzeltin lanciò la proposta: formare una cordata tutta al femminile per un’impresa ancora da definire. «Ero giovane, 21 anni, ma avevo già compiuto tante salite importanti sulle Alpi. Siccome alpiniste più esperte avevano declinato la proposta – probabilmente pensavano fosse troppo azzardata – la scelta cadde su di me e altre donne non professioniste».
Oltre ad Alessandra Gaffuri, allora studentessa di Medicina veterinaria e alla Metzeltin, la cordata era formata da Nadia Billia Moro (accompagnatrice di trekking), Annalisa Cogo (medico), Laura Ferrero (educatrice), Oriana Pecchio (medico), Mariola Masciadri (giornalista), Annelise Rochat (insegnante di Lettere).
Otto donne, otto storie diverse, un sogno comune: dimostrare che l’Himalaya non era solo una questione maschile.
Destinazione: Monte Meru, 6672 metri
Scartata la prima idea di affrontare una montagna in Bhutan – il governo aveva già rilasciato il permesso a una spedizione femminile giapponese e non c’era voglia di sovrapposizioni – la scelta cadde sul Monte Meru, montagna della regione himalayana del Garhwal, nello Stato indiano dell’Uttarakhand.
Formato da tre picchi con altezza massima di 6672 metri, il Monte Meru è conosciuto per il caratteristico pilastro a forma di pinna di squalo (Shark’s Fin), che rende la parete una delle più dure per difficoltà tecnica. Come scrissero nel comunicato stampa dell’aprile 1983:
“Il Monte Meru, montagna sacra della religione induista nella quale simboleggia il centro dell’Universo, è esteticamente affascinante, ma anche molto impegnativo dal punto di vista alpinistico. Un’impresa non certo priva di difficoltà se si tiene presente che è la prima volta che si tenta la scalata del Meru in periodo pre-monsonico. Inoltre, fino ad ora l’Italia non è mai stata rappresentata da una squadra composta da sole donne”.
Grazie per questo bel racconto.
È giusto raccontare la storia dell’ alpinismo in tutti e suoi generi e in tutte le sue sfaccettature… La vita è fatta di vittorie e di sconfitte, ma se viene raccontata sempre e solo da chi vince ne sapremo sempre solo una metà.
Chissà quante donne han tentato di fare, ma non lo sappiamo solo perché ci si sofferma sempre e solo sulla vittoria piuttosto che sul partecipare…
Grazie davvero
Hai colto perfettamente il senso! La storia dell’alpinismo narrata solo dai vincitori è una storia scritta a metà. Ogni tentativo, ogni sogno spezzato, ogni volta che qualcuno ha osato provare: tutto questo fa parte del racconto vero della montagna. E ogni storia merita di essere raccontata, non solo quelle che si concludono in vetta. Quelle otto donne del ’83 hanno dimostrato che il coraggio si misura nel provarci, non solo nell’arrivare. Grazie per averlo capito. Roberta Orsenigo