Acquolina di cava: le sue viscere di roccia chiara fanno gola alla fame di cemento della metropoli ai suoi piedi. Lo stesso profilo di questa montagna, osservato da diverse prospettive, è una contraddizione: dal basso, onde verdi e pacifiche di pascoli morbidi; dalla sua cresta, irta di antenne nere e turgide, gli squarci squadrati scavati nel grigio cereo delle cave. Sui ventosi prati meridionali, che si spalancano ancora sulla piana sottostante, stanno come in un camposanto le ultime baite, molte nel silenzio raccolto dell’abbandono. A maggio le contorna, quasi tetro, il profumo dei narcisi selvatici. Dai bassi boschi avanzano lente le betulle: spettrali pioniere dei pascoli trascurati, inventano pallidi carnevali contorcendosi sotto i venti capricciosi di quei versanti.
L’Albenza è un confine: la notte, sulle spalle ampie di questo gigante, le migliaia di luci che vibrano mille metri più in basso, spauracchi del buio, appaiono come i deliri febbrili di un allucinato. Volgendosi a nord, quando la luna argenta i prati, i profili scuri delle cime che proseguono la sua dorsale fino a lontananze invisibili invitano la ricerca di cammini perduti. Sentieri che non ritroveremmo comunque, se non negli anfratti montani più riposti: oggi imperano le strade bianche. L’Albenza è la monumentale lacerazione tra il regno degli avi, immoto e ormai alle soglie della nostra comprensione, e quello irreale, sfilacciato e votato al caos della contemporaneità. Il secondo fagocita ansiosamente il primo, come sempre è avvenuto alle soglie dei nuovi cicli della storia.
Da qualche tempo ricevo e leggo con molto piacere le vostre storie su Altitudini.
Una bella lettura per iniziare la settimana con cose belle, grazie.
Grazie Susy.
suggestive visioni d’albenza.
che bel narrato!
Grazie Marco,x questo prezioso racconto.
L ho letto ed ecco che mi è venuta voglia di assaporare questo mondo di sbieco alla vita.
Bravo