Un pensiero però, sono certo li tormentava, quello per i ragazzi alla guerra e un altro, invece, ne sono altrettanto certo, faceva loro difetto: il pensiero del Natale. Chi mai volete che pensasse al Natale in quei giorni di guerra, figli e nipoti lontani a spararsi addosso come si spara alla lepre, figli perduti in un paese che mai si è saputo dove fosse per davvero, né allora né mai.
L’imperatore d’Austria e re d’Ungheria aveva chiamato alla guerra i giovani di quelle terre “per lavare il sangue di Sarajevo” aveva detto, ma sulle montagne lo sapevano bene che il sangue non si lava con altro sangue, ciononostante andarono alla guerra che all’Imperatore non si poteva disubbidire.
Laggiù, o lassù dov’era quel luogo di guerra, invece, i ragazzi in trincea, ci pensavano eccome al Natale che si stava avvicinando e più ci pensavano e più diventavano tristi e più diventavano tristi e più avevano solo voglia di tornarsene a casa dai loro cari, stare tutti assieme accanto al fuoco con quel poco di cibo che c’era, ma che aveva il sapore inarrivabile di casa; huam. E poi le campane di lontano e i canti in quella lingua antica, incomprensibile agli italiani quanto ai tedeschi. Quella stessa lingua che adesso i ragazzi in guerra usavano per scrivere alla famiglia o alla morosa, aggirando la censura, che non poteva che arrendersi a quel codice segreto in cui non sapeva raccapezzarsi. E i ragazzi scrivevano senza nascondere nulla di quanto orribile fosse la guerra e senza che nessuno coprisse le loro parole con l’inchiostro nero.
Gottlieb aveva allora vent’anni, più di ottanta quando mi raccontò la storia che ho trascritto qui di seguito.
Avevo una ragazza qui al paese, andavo già in casa e si parlava di matrimonio, ma io ero un gran birbante e un giorno mentre ero lì a filò, vidi il padre della ragazza addormentato accanto alla stufa sulla quale bolliva una grossa pentola di minestrone, dalla bocca gli penzolava la pipa ancora accesa, con un bastoncino detti un colpetto alla pipa e la feci cadere nel minestrone. La pipa arrivò proprio nel piatto del vecchio, che dopo averla rigirata per un po’ e compreso il fattaccio mi cacciò di casa e mi disse di non farmi mai più vedere. Così quando mi chiamarono soldato pensai che stare lontano per un po’ avrebbe fatto calmare le acque e sarei potuto tornare a “parlare” alla ragazza, certo mai avrei immaginato cosa mi aspettasse.
La polvere penetrava i polmoni e faceva tossire fino a sputare lo stomaco e poi il fango che ti toglieva le scarpe e dovevi scavare con le mani per ritrovarle. E le mani che diventavano fango anch’esse e poi tutti diventammo fango, i vivi e i morti: fango tra il fango eravamo.
E in quei giorni di dicembre il fango divenne ghiaccio, un ghiaccio giallastro come l’urina dei vecchi, un ghiaccio maligno sul quale non stavano in piedi neppure i corvi.
E l’assalto. Chi non è mai andato all’assalto non può neppure immaginare l’orrore. Ci avevano dato delle mazze con i chiodi e delle palle di ferro attaccate a delle catene, ma tanti di noi usavano anche il badile e la zappa con cui scavavamo le trincee, con quegli attrezzi medievali chi ci riusciva saltava dentro la trincea del nemico e andava avanti colpendo a destra e a sinistra finché qualcuno lo abbatteva, si moriva così, ammazzando cristiani come insetti, che brutta morte era quella, figliolo. E questo accadeva anche più volte al giorno, mentre le mitraglie seminavano grano di piombo.
E l’odore, l’odore della cordite e del sangue mescolati all’odore di quella grappa acida che buttavamo giù senza neppure sapere cosa fosse; l’odore dell’inferno deve essere come quell’odore.
Quel mattino uscimmo all’assalto, come sempre ognuno di noi cercava la prima buca buona per nascondersi, prima dai nostri gendarmi che ci pungolavano con le baionette perché uscissimo e ci avrebbero fucilato sul posto se non lo avessimo fatto e poi, solo poi, da quelli che avevamo di fronte.
Quel mattino, però, era la vigilia di Natale e mandarci all’assalto la vigilia di Natale era stata una grande carognata, la più grande che ci potevano fare, va bene la guerra, va bene l’Imperatore, va bene tutto, ma proprio la vigilia di Natale?
Ciao Andrea, io un “buon Natale” lo azzardo.
Grazie Marco buon Natale anche a te
Buon Natale. Sarebbe davvero bello che un giorno la ragionevolezza delle persone prevalesse sulle logiche di potere.
Buon Natale
La guerra che follia! E che vergogna quegli omuncoli che dal salotto di casa hanno il coraggio di fare i guerrafondai. Quanto aveva ragione Messner a dire: io sono la mia patria e la mia bandiera è il mio fazzoletto.
Già…
Un bel racconto in un momento dove c’è bisogno di riscoprire la follia della guerra e non ricascarci dentro. Bravo e buon Natale.
Grazie. Buon Natale anche a lei.