testo di Francesco De Bastiani
Nell’autunno inoltrato, in una comunità di montagna, fervono i lavori nel bosco, finché l’arrivo della neve non sposterà il pendolo della comunità verso l’interno delle stalle e delle case. Non per tutti però: due uomini infatti dovranno passare l’inverno nel bosco della Val Scura.
I due uomini sono due militi della regia Finanza incaricati di controllare gli spostamenti degli individui lungo l’itinerario alpino del Passo Forca, attraverso il quale non era infrequente il passaggio di contrabbandieri provenienti dal distretto di Sagron Mis, i Tirolesi come erano ironicamente indicati. Dopo un’abbondante nevicata i due militi decidono di ritornare nel consorzio degli uomini, lasciando lo spazio naturale della Val Scura al regno animale. E qui entra in scena un nuovo protagonista: Jèrpa, un camoscio. Ma non un camoscio qualunque. — (dalla prefazione di Daniele Gazzi)
Jèrpa, di Francesco De Bastiani, edizioni DBS, 2017, € 10.00
(il volume può essere richiesto scrivendo all’autore: debapatao@gmail.com)
[…] A valle, la Piave conduceva nelle soffici molli anse il gelido esistere di quell’acqua pura e muta, che qualche ora prima aveva bagnato i sassi delle Alpi più a nord, sassi che da lì a qualche anno sarebbero stati bagnati di sangue e crudeltà allo scoppio della prima guerra mondiale. Una leggera coltre d’umido pervasa da quell’odore di muschio, silenzio e freddo immortalava la Val Belluna come in un livido quadro, senza cornice e con poca luce, baciato da tinte vitree, perché non ancora inondate dai raggi del sole, lo stesso che invece lassù, sulle crode e balze di quel fantastico teatro di colori, suoni e odori, aveva invaso di tiepido calore, ma di immenso splendore ogni spuntone, ogni lembo di neve, ogni muscolo di Jèrpa. E allora ti chiedi il perché, il significato di essere parte di questo immenso disegno, di essere piccola figura in quel dipinto, ma di essere comunque dentro il quadro, non importa se davanti o dietro, se vicino alla cornice che non ancora è stata messa o al centro della scena.
Noi ci siamo e siamo carne e sangue di Jèrpa, siamo il gelo del vento, il duro della roccia, il caldo di quei raggi di sole, la vittoria per una conquista raggiunta, la sconfitta per una dipartita vissuta. Il nostro esistere, l’essere genti della montagna, ed ancora di più genti delle Alpi e precisamente popolo delle Dolomiti, ci impegna ad essere fedeli custodi del quadro, attenti osservatori del dipinto che abbiamo di fronte ogni giorno che ci dona il Signore, sentinelle attente dei mutamenti, baluardo di questo tesoro che ci è stato donato, che dobbiamo custodire anche per i figli che Iòle non ha potuto avere. Ecco perché la nostra gente non sale la montagna, semplicemente la percorre, ecco perché una cima non si conquista ma si raggiunge, ecco perché senti il bisogno di andare in vetta, semplicemente per avvicinarti all’essenza del significato intimo del nostro esistere, epurato da ogni tipo di ingombro e peso inutile.
Ogni spuntone di roccia ha vissuto l’avvicendarsi di mille e più stagioni: primavere di tempi ignoti, ma anche e soprattutto primavere di epoche più o meno tristi: estati torride e periodi storici roventi di sangue ed orrori; autunni di pace e ricche vendemmie, che lasciavano presagire la prossima stagione non solo per l’avvicinarsi del solstizio d’inverno, ma il freddo gelido di un’epoca, della guerra nefanda, degna di un girone dantesco. Eppure quello spuntone di roccia c’era, c’è e ci sarà, e vegliardo ha già amato i nonni dei miei nonni, ed ancora prima ha dato i natali ai nostri avi, ha visto nascere mio padre, ha pregato per mia madre quando mi cullava fra le braccia nella calura estiva, ha condiviso la mia gioia nel divenire padre e pregherà per me e per il bene dei miei figli.
Ma è solo uno spuntone di roccia! Sì, ma io sono figlio di quella roccia, ognuno di noi che vive fra queste montagne è figlio di uno spuntone di roccia. Ma sì, è chiaro, quella roccia mi ha generato, nutrito, amato; fra quelle guglie e quelle balze sono cadute la pioggia, la neve, che il sole ha sciolto e fatto correre fra le pieghe, nelle fessure più strette e buie, ed è arrivata a me come acqua che nutre, che mi disseta, che mi ristora, che mi rigenera, che mi vuole dare aiuto, ma che allo stesso tempo chiede il mio aiuto. Hai capito perché il richiamo è forte, hai capito perché al di fuori del quadro è difficile vivere? Perché fuori da qui si può vivere, ma il richiamo è forte, vai ma ritorni, vivi fuori ma speri di ritornare, brami alla città, ma chiedi di ritornare fra queste guglie, sulle balze, fra la tua gente, negli odori e sapori che solo qui ritrovi.
Ecco perché il quadro non ha cornice: è aperto, lascia che ognuno di noi possa entrarvi ed uscirvi ogni volta che vuole e mai ti fa sentire traditore. E lo sai perché? Semplicemente perché quest’opera d’arte non ha la firma in basso, perché ognuno di noi è semplicemente uno dei tanti colori di quel quadro, ciascuno con le proprie sfumature, con le proprie luci ed ombre, uniche, irripetibili e non clonabili […]