Sfogliare un dizionario etimologico è come rovistare in un baule pieno di meraviglie.
Non sai mai cosa ti capiterà tra le mani e dove ti porterà. “Geografia”, per esempio, deriva dal greco γεωγραϕία (non è affascinante già di per sé, questo armonioso susseguirsi di linee?) e significa letteralmente “descrizione della terra”. Come se i mari, i fiumi e le montagne fossero le impronte sul palmo di una enorme mano, oppure i solchi di un vinile e ognuno di noi nel percorrere questi solchi, fossimo come la testina su un giradischi e ne ricavassimo una musica sempre diversa.
Mi piace pensare che sia questa musica a muovere le persone, a farle decidere di viaggiare per ascoltare ogni volta una melodia nuova, oppure di legare il proprio destino a un luogo preciso, perché solo lì hanno trovato le note giuste per loro. Succede, talvolta, che la melodia nata dall’intreccio indissolubile tra persone e geografia rimanga impressa per sempre nell’aria e tu, nella luce di un tardo pomeriggio d’estate, abbia la fortuna per un attimo di ascoltarla. È il momento in cui raggiungi finalmente la giusta distanza dagli affanni della vita di tutti i giorni, e percepisci che in quell’incontro c’è qualcosa di più grande, che travalica il tempo e lo spazio, del quale volente o nolente in qualche modo fai parte anche tu. Mi chiedo se questo continuo esercizio di ascolto non sia il mio sentiero nero. Una faticosa strada secondaria alla ricerca di una dimensione diversa, spesso invisibile, in cui sentirsi per un attimo parte del tutto. Una strada sulla quale i viaggiatori sono sempre più rari. Rari sì, ma non scomparsi.
Ha qualcosa, l’Appennino, di sfuggente. Non so dire cosa sia, forse un’energia sottile?
Quel giorno in Umbria, dopo aver preso una sberla di sole per le vie di Gubbio e aver guidato una buona mezz’ora su strade asfaltate negli anni Cinquanta, arriviamo in fondo a una valle boscosa e sperduta, dove sorge un’abbazia antica. Sitria, si chiama, e non c’è anima viva. Solo vento, cicale e un bosco invadente. Anzi no, guardando bene c’è un personaggio strano seduto all’ombra della chiesa, e ci osserva con occhio un po’ torvo tra le frasche. Che si fa? Massì, andiamo.
Ha qualcosa, l’Appennino, di sfuggente. Non so dire cosa sia, forse un’energia sottile? Una musica speciale, che arriva da chissà dove, rimasta sospesa nell’aria? Qualcosa che più ci penso e più mi scivola tra le dita. Però forse non è un caso se da quelle parti nel Medioevo fosse tutto un brulicare di personaggi di un certo carattere. Come sarà stata nel 1014 questa valle, scomoda ancora oggi che ci puoi arrivare in macchina, quando un viandante da Ravenna, tale Romualdo, decise che lì avrebbe fondato un’abbazia? Non era un tipo facile, Romualdo era intransigente, ostinato, lo avevano già costretto ad andarsene da altri monasteri, ma qui finalmente, forse, trova la musica giusta. Costruisce il suo rifugio e vi rimane rinchiuso per sette anni, osservando il silenzio assoluto e infliggendosi penitenze oggi difficili da capire. Pare che il nome di questo angolo sperduto, Sitria, all’epoca piacesse molto per via di una assonanza con Nitria, un luogo in Egitto particolarmente caro agli eremiti. Ma in realtà il nome è ancora più antico, forse un termine greco, lo stesso da cui arriva “cathedra” e il nome della montagna sovrastante, Catria. Che infatti assomiglia a una sedia, se uno ci fa caso. Da sub-edra, passando da Sutria, a Sitria è un attimo.
Ha l’aria stordita perché in genere trascorre le sue giornate in ostinata solitudine, in fondo a questa valle fuori mano.
Un altro gioiello dal baule dell’etimologia, stavolta offerto dal personaggio strano seduto all’ombra, che in realtà è il gentilissimo custode di questo luogo mistico, tornato già da un pezzo alla quiete del bosco. Ha l’aria stordita perché in genere trascorre le sue giornate in ostinata solitudine, in fondo a questa valle fuori mano, osservando un silenzio assoluto. Sempre che non arrivino due personaggi strani sul far della sera, poco prima dell’orario di chiusura. A volte i sentieri si incrociano, anche quelli degli ostinati.
Sarebbe piaciuto a San Romualdo, ne sono certa.