Verso la fine degli anni ’60 eravamo lì, noi ragazzini o poco più, al paesello posto sul fianco di una montagna e le giornate di un’estate da riempire.
Non pensavamo alle cime, sapevamo che i “grandi” non ci avrebbero concesso di andare oltre i 1900 metri di Ciamp, luogo nel quale tutti eravamo stati nel periodo della fienagione. Passarono un paio di estati e fummo cresciuti quel tanto da poter oltrepassare i confini fino allora obbligati e così raggiungere le cime di cui avevamo sentito parlare dai ragazzi più grandi: il Sasso Bianco, il Sass Negher, i Lastei, il Piz Zorlet. Non esisteva segnaletica, solo mulattiere fino ai prati che venivano sfalciati perché allora non c’era famiglia che non avesse la capra nella stalla, i conigli e le mucche per il latte.
Per andare oltre Ciamp, si seguivano tracce di passaggio, sentieri non sempre ben definiti, frequentati da rari escursionisti che salivano da Alleghe. Le auto non erano ancora di uso comune per cui noi, i sentieri, quelli veri, con i cartelli e i bolli bianchi e rossi, non li avevamo mai percorsi, facevano parte delle montagne “grandi” che vedevamo dal paese, o dalla cima del Sasso Bianco, senza poterle raggiungere. Furono, i nostri in quegli anni giovanili, i sentieri della non conoscenza, della mancanza di esperienza, dell’inconsapevolezza, sui quali a volte capitava di farsi male, mai per sfida, piuttosto per la voglia di esplorare e un indefinito quanto piacevole sapore di libertà. Per noi avevano il colore dell’avventura, un misto tra il verde dei ripidi prati dei Lastei, il grigio delle rocce e l’azzurro del cielo.
Capimmo il pericolo e ritornammo sulla traccia rassegnandoci al saliscendi e alla residua fatica che ci portò alla croce della cima.
«Arivè a Zenzenighe e, dopo, se va su da Martin» aveva detto lo zio Mario e per noi era più di una cartina Tabacco (che non avevamo), era un viatico. Partimmo l’indomani di buon’ora, in tre a bordo della mia Fiat 500, comprata da pochi mesi con i soldi del primo lavoro; arrivammo a Cencenighe ma non trovammo traccia di Martin. Prima che terminasse il paese, vedemmo indicazioni di luoghi che non conoscevamo, ma siccome lo Spiz de la Cros era sopra il paese, non avemmo dubbi che saremmo comunque arrivati sulla cima. Dopo più di due ore di camminata nel bosco, eccoci arrivare a una grande radura prativa (era la malga d’Ambrosogn) che ci consentì, con nostro rammarico, di vedere lo Spiz alle nostre spalle; ci eravamo alzati di quota, ma allontanati dalla nostra ambita meta.
Non ci scoraggiammo e, individuato un sentiero che andava in direzione dello Spiz, riprendemmo a camminare. Arrivati alti sopra una forcella, si trattava di scendere per poter risalire sull’altro versante, ma ci sembrò più logico traversare in quota sul ripido prato di erbe miste a roccia scura. Era così ripido che veniva spontaneo portare la mano verso terra per appoggiarsi e dopo pochi metri vidi la prima vipera acciambellata al sole. Capimmo il pericolo e ritornammo sulla traccia rassegnandoci al saliscendi e alla residua fatica che ci portò alla croce della cima. Ovviamente non potevamo che tornare per il sentiero di salita, ripassando alla malga d’Ambrosogn e, infine, scendemmo all’auto.
Incontrammo un paio di persone che ci chiesero dove fossimo stati. «Allo Spiz de la Cros» rispondemmo con un certo motto d’orgoglio. «No l’è posibile!» rispose uno freddamente «Da qua no se arìva su el Spiz». Tacemmo. Forse non era logico salire da lì, ma non eravamo dei bugiardi, ci era costato ben dodici ore di cammino ininterrotto, ma noi sullo Spiz de la Cros (denominazione locale di Cima Pape) ci eravamo arrivati.
Così cercavo spesso l’avventura non tanto nelle difficoltà, ma nelle montagne appartate, nelle vie normali, nella scarsità di informazioni.
Ripensare a quella giornata, oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, ancora mi emoziona e penso che quel periodo sia stato il più formativo nel mio approccio alla montagna, una specie di imprinting indelebile. Diventare in seguito istruttore di alpinismo non ha mai fatto prevalere l’aspetto tecnico e, come in escursione, anche nell’arrampicata, alla fine contava più il percorso rispetto alla meta da raggiungere. Così cercavo spesso l’avventura non tanto nelle difficoltà, ma nelle montagne appartate, nelle vie normali, nella scarsità di informazioni, spesso non usando cartine e relazioni, senza la bussola. Così capitava di non arrivare da nessuna parte, spesso si rischiava un bivacco in un ricovero di fortuna, a volte era una baita abbandonata, altre una legnaia da svuotare per ricavarci il posto per stendere il sacco a pelo.
In anni più recenti, affievolita la baldanza giovanile, ho ritrovato le sensazioni dell’avventura nel percorrere i viàz, anche quelli dei “non sentieri” perché tracciati dai camosci, non dagli uomini, per cui serve diversa attenzione, a volte intuito, capacità di concentrazione. Non so se siano “sentieri neri”, anche se il nero evoca l’incognito, io ho sempre pensato a un caleidoscopio di colori, variegato, come le emozioni dell’avventura che ha tante sfaccettature diverse, tutte da scoprire.