Saggio

GUIDE ALPINE DI CORTINA
150 ANNI DI STORIA
#2

Quest’anno il Gruppo Guide Alpine festeggia i 150 della loro nascita. Nella loro lunghissima storia si intrecciano eventi memorabili e personaggi straordinari.

testo di Silvia Benetollo

Pomagagnon, via Dimai a Punta Fiames, foto di Gianluca Lorenzi
29/08/2021
7 min
Il 2021 per le Guide Alpine di Cortina coincide con due importanti anniversari: i 150 anni della nascita del loro gruppo e i 120 anni di una via aperta da Antonio Dimai e destinata a diventare un grande classico delle Dolomiti: la parete sud di Punta Fiames.

[segue dalla 1a parte]

Dopo la prima invernale alla Croda da Lago con Jeanne Immink la carriera della guida ampezzana è inarrestabile. L’anno successivo, nel 1892, sempre con Immink si dedica alla Cima dei Cusiglio (Pale di San Martino) e al Sassolungo, mentre sul Sorapìs sale in cordata con un’altra guida di Cortina, che ebbe una lunga carriera ancora in parte da scoprire: Zaccaria Pompanin.

Dalle note che i clienti hanno lasciato nel libretto emergono poi imprese che oggi hanno dell’incredibile, e che se non fosse per queste annotazioni forse si sarebbero perse nelle nebbie del passato: per esempio, un tale Friedmann riporta che il 22 settembre 1892 ha salito l’Antelao e il Pelmo nello stesso giorno, trovando nel Dimai uno “scalatore eccellente, camminatore veloce e resistente oltre che una vigile guida”[1].

La prima salita invernale alla Tofana di Mezzo

L’anno dopo è la volta di un’altra prima invernale, la salita alla Tofana di Mezzo con il cliente Theodor Wundt (sì, lo stesso che costrinse la Immink a una giornata di fotografie sulla Piccola di Lavaredo in posizioni precarie…), che poi riporterà le memorie di questa epica scalata nel suo “Wanderungen in den Ampezzaner Dolomiten”. In cui leggiamo:

“Ora però, salendo di quota, si era fatto giorno, e di colpo tutto il panorama si rivelò sotto di noi: tutto il vasto, vasto panorama con le sue innumerevoli cime e le sue infinite distese nevose. Evviva! Com’è bello, com’è grande, com’è meraviglioso! Chi non farebbe qualsiasi fatica per poter ammirare questo splendore, chi non resterebbe attonito di fronte a questa immensità? Ma bisogna tornar sulla terra: una vista simile non ti vien regalata a buon mercato. Ti reggi in piedi in bilico. Un passo falso ti può portar giù nel precipizio e questo splendido mondo potrà tramutarsi per te in gelida tomba. Stai attento dunque! […] Circa un piede e mezzo di nuova neve nascondeva l’inganevole crosta di ghiaccio sottostante che non offriva nessuna, proprio nessuna tenuta. Il piede sprofondava facilmente nello strato superiore e poi scivolava, ora più ora meno, finché una qualche scabrosità non faceva resistenza. […] Così proseguimmo per un’ora, non solo senza che le cose migliorassero, ma anzi andando tutto sempre peggio, cosicché la mia speranza di vittoria svaniva passo passo.
«Faccia attenzione, se cade io non la posso trattenere e per noi due è finita»
Potevo permettere questo? No. Bisognava tornare indietro.
«Senta Toni, se dopo quello spigolo là non migliora torniamo indietro».
L’avevo fatta bella. Toni non spiccicò una parola, ma la sua espressione ostinata lasciava indovinare facilmente il suo pensiero:
«mai: dobbiamo andar su e ci arriveremo»[2].”

Croda da Lago, 1908
Croda da Lago, 1908
Cimon della Pala, 1907
Camino Adang, 1909

Credo che queste imprese epiche, avvenute appena un secolo fa su montagne così vicine a casa, non abbiano niente da invidiare per coraggio e determinazione alle grandi spedizioni antartiche ottocentesche di Ross o di Shackleton. Può sembrare superfluo ricordarlo, ma proprio come i due esploratori inglesi hanno affrontato i ghiacci del polo sud su imbarcazioni dallo scafo in legno (anche se rinforzato), così le guide e i loro clienti non avevano di certo l’attrezzatura su cui può contare un qualsiasi appassionato di montagna dei nostri giorni.

Le corde di canapa, per esempio, una volta bagnate diventavano rigide e pesanti; esistevano anche corde di seta, ma il loro costo era proibitivo. Il concetto di assicurazione poi era ben diverso da quello che intendiamo oggi. All’epoca solo il cliente veniva legato alla corda, mentre la guida la teneva a tracolla, avvolta attorno al braccio oppure legata a qualche sporgenza: una caduta poteva essere fatale per entrambi. Inoltre, l’uso del casco era sconosciuto: in tutte le foto d’epoca sia le guide che i clienti portano un semplice cappello. A tal proposito conviene ricordare ancora Jeanne Immink, la prima a intuire l’importanza di una protezione per la testa, tanto da affrontare tutte le sue ascensioni con un berretto rigido da cavallerizza, che diventerà poi il suo segno distintivo. Per quanto riguarda gli ancoraggi, il chiodo da roccia viene inventato nel 1909, mentre il moschettone entra in uso solo nel 1912.

Questi gli equipaggiamenti con cui le guide dell’epoca portavano i clienti, per lo più stranieri, a scalare pareti ancora inviolate, dando loro la possibilità di entrare nella storia battezzando le vie di salita con il loro nome, seguito da quello della guida.

Le vie che rimandano ad Antonio Dimai “Deo” sono davvero molte, e come tutte le ascensioni hanno una storia da raccontare.

La via Dimai-Treptow sul Cimon della Pala

È il tardo pomeriggio di un giorno di luglio del 1826 quando due personaggi male in arnese, uno senza scarponi e l’altro senza piccozza, varcano la soglia del rifugio Rosetta e chiedono di poter mangiare qualcosa. Sono Antonio Dimai con il cliente Leon Treptow. Nessuno era stato messo al corrente dei loro piani per evitare malumori, dato che le Pale di San Martino erano zona d’azione delle guide locali.

I due non sono molto propensi a parlare, ma i turisti presenti nel rifugio li incalzano. Allora, cosa è successo? Un incidente? Treptow inizia a raccontare. Erano partiti all’alba con l’intento di salire la ancora inviolata parete sud del Cimon della Pala. Avevano trovato una roccia davvero marcia e da una certa quota in poi una enorme parete rossastra che sembrava invalicabile. Dimai si toglie gli scarponi e indossa le calzature da arrampicata. La salita è difficoltosa, i sassi cadono nel vuoto. Dopo infinite difficoltà ecco l’ultima parete, liscia e strapiombante. Riescono a superarla, ma lo zaino e la piccozza devono essere tirati su con la corda da Dimai, che è salito per primo. A un certo punto Treptow sente un fragore che si avvicina, e dalla nebbia sopra di lui spunta lo zaino, che lo sorpassa volando nel vuoto come un sasso. I due si trovano così a circa trecento metri dalla vetta, hanno perso una piccozza e un paio di scarponi, oltre che ai viveri e alla preziosissima bottiglia di vino…

Campanile Val di Roda, 1911

Le vie inglesi

A partire dall’agosto del 1895 e fino al 1899 due inglesi arrivano a Cortina. Sono Arthur Raynor e John Phillimore e con loro arriva un nuovo modo di intendere l’alpinismo: non più solo cime inviolate, non necessariamente oltre di 3000 metri, non per forza seguendo la via più breve e logica. In un suo articolo sull’Alpine Journal Phillimore chiama queste vie “The Wrong Side of some Dolomites”: tutte le vette sono degne di essere raggiunte, e ogni vetta può offrire itinerari inediti.

Con questo manifesto i due inglesi nel giro di quattro estati apriranno una mirabile sequenza di nuove vie, chiamate “vie degli Inglesi”, sempre accompagnati da guide di prestigio, tra cui gli apprezzatissimi Antonio Dimai, Agostino Verzi e Giovanni Siorpaès (figlio di quel Siorpaès che consigliò ad Amelia Edwards).

Il 24 agosto del 1895 i due inglesi accompagnati da Dimai e Siorpaès si dedicano a una mastodontica parete che nessuno aveva mai tentato prima: la Nord Ovest del Civetta, che supereranno in 12 ore. Ancora oggi si tratta di una via in ambiente severo, che ha avuto pochissime ripetizioni e che si sviluppa su un itinerario di quasi 2000 metri.

La via Dimai-Verzi-Heath di Punta Fiames

Nel 1899 Phillimore visita per l’ultima volta le Dolomiti concludendo la grande serie delle “vie degli inglesi”. Due anni dopo, nel 1901, l’affiatata coppia Dimai-Verzi accompagnano un altro inglese, tale J.L. Heath in una scalata che, per la facilita di accesso e per il fatto che è ben visibile da Cortina, diventerà una delle ascensioni più popolari.

Punta Fiames o Rà paré de ra Fiames, come la chiamano gli ampezzani, fa parte del Pomagagnon e praticamente spunta dai tetti di Cortina. È quindi un panorama piuttosto familiare ai cortinesi, e chissà, probabilmente sono state proprio le due guide a proporre la salita allo sconosciuto scalatore inglese. D’altra parte spesso avveniva proprio così: la prima neve rivelava all’occhio esperto della guida delle possibili vie di salite, che venivano poi provate in primavera e proposte ai clienti durante l’estate.

Sta di fatto che la salita è un successo: l’esposizione e la roccia sono ottime, gli scalatori impiegano appena mezza giornata ad arrivare in vetta e la gente ha potuto osservarli da Cortina con il binocolo. La via diventa di gran moda. Talmente di moda che la tariffa richiesta dalle guide per accompagnare i clienti su Punta Fiames è piuttosto salata, inferiore solo a quella della Croda da Lago.

C’è allora questo aneddoto un po’ esilarante che le guide di Cortina ancora oggi raccontano volentieri. Il presidente dell’allora sezione del Club Alpino di Cortina, tale Teofrasto Dandrea detto “Frasto”, contesta il prezzo chiesto dalle guide ai clienti per la salita a Punta Fiames: secondo lui costa troppo. Le guide però non ci stanno e si impuntano. E così Antonio Dimai, Arcangelo Dibona e Agostino Verzi invitano Teofrasto a provare le reali difficoltà e lo portano in scalata. Il povero Frasto non deve aver avuto grande dimestichezza con gli orizzonti verticali: nelle foto che immortalano la “gita” è legato alla corda di Dimai e ha uno sguardo a dir poco intimorito. E non aveva tutti i torti: pare che in un camino a metà della parete fece un volo non proprio casuale, restando appeso alla corda. La disavventura però gli fruttò l’onore di dare un nome a quel tratto di via che da allora si chiama “camin del Frasto”.

Sono passati 120 anni dalla prima storica ascesa di Punta Fiames per la via Dimai-Verzi-Heath, e per festeggiare l’anniversario il Gruppo Guide Alpine di Cortina ha illuminato la via con delle torce solari, che si accendono appena scende la sera. Il risultato è spettacolare, e di certo anche il Frasto ne sarebbe soddisfatto.

Punta Fiames, 1909
Punta Fiames, 1909
Punta Fiames, 1909
Punta Fiames, 1909

Una lunga carriera alpinistica

Dal 1907 al 1913, poco prima dello scoppio della guerra, Antonio Dimai “Deo” farà da guida a un cliente illustre: re Alberto del Belgio. Accompagnato dall’amico e valente fotografo Charles Lefébure, re Alberto arrampicherà per più di vent’anni con Dimai. Per ringraziarlo gli spedirà come ricordo centinaia di foto, la cui particolarità è il metodo (allora innovativo) cui sono state prodotte: si tratta infatti di immagini stereoscopiche, che con un apposito visore possono essere ammirate in 3D. Oggi sono custodite con grande cura dalla guida Franco Gaspari “Moroto”, e sono incluse nella pubblicazione “Antonio Dimao Deo – una famiglia di guide alpine”.

L’amicizia con Alberto del Belgio sarà di grande importanza per Antonio Dimai durante la guerra. L’attività di guida si interrompe nell’estate del 1914 e di lì a poco il conflitto irrompe nella conca d’Ampezzo, che si ritrova sulla prima linea del fronte. Dimai non viene arruolato per motivi di età, ma il 20 luglio del 1915 il generale Cantore viene ucciso mentre ispeziona le postazioni sulla Tofana.

A Cortina la notizia esplode come una bomba. Gli Alpini decidono di vendicare la morte del generale conquistando la Tofana di Rozes, in mano agli Austriaci; l’unico modo per farlo è salire dalla parete sud e l’unico che l’ha scalata è Antonio Dimai “Deo”, che nel 1901 aveva aperto una via accompagnando le baronesse ungheresi Eötvös. Ma la guida si rifiuta: in cima alla Tofana di Rozes ci sono i suoi compaesani. La sua posizione irremovibile costerà a Dimai l’arresto e l’internamento a Firenze, dal quale uscirà solo grazie all’intervento del suo vecchio e influente amico, re Alberto del Belgio.

La carriera alpinistica di Antonio Dimai prosegue fino al 1930. Morirà nel 1948, lasciando la scena ai figli Angelo e Giuseppe, e ad altre importanti guide, come Angelo Dibona. Questa però è ancora un’altra storia.

[continua]
_____
[1] Tutte le informazioni sono tratte dal volume “Antonio Dimai “Deo” – una famiglia di guide alpine”.
[2] “Wanderungen in den Ampezzaner Dolomiten” di Theodor Wundt.

Le foto fanno parte della pubblicazione “Antonio Dimai Deo, una famiglia di guide alpine”, di Carlo Gandini e Franco Gaspari, edito dal Gruppo Scoiattoli, Cortina d’Ampezzo, 2016.

Torri del Vajolet, 1909. Il re Alberto I con Antonio Dimai
Pomagagnon, via Dimai a Punta Fiames, foto di Gianluca Lorenzi


Con la collaborazione di Cortina Marketing
www.cortinamarketing.it

Silvia Benetollo

Silvia Benetollo

Sono una traduttrice con la passione per il disegno, per le Dolomiti Bellunesi e per la toponomastica alpina, perché penso che risalire all’origine del un nome di luogo caro sia un buon modo per farne parte.


Il mio blog | La Martora Blu è il mio progetto che raccoglie i disegni e le collaborazioni che ho avuto l’onore di avere in questi ultimi anni. È anche un modo per tentare di fare ordine sulla mia scrivania. Contiene storie di montagna, appunti di viaggio, disegni. In ordine sparso.
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