Racconto

FIRST ASCENT

Un fratello e una sorella salgono in vetta alla loro grande montagna, per un regalo di compleanno che, metro dopo metro, diventa - anche - una faccenda di pronomi possessivi.

testo di Fabio Dal Pan, foto di Demis Scopel

12/03/2023
12 min
Poi è arrivato il momento anche per lei di salire sulla nostra grande montagna.
Senza obblighi, spinte esterne, costrizioni, che in queste cose⁽¹⁾ non funzionano mai.
È stata lei a chiederlo, anzi a chiedermi, se per il suo compleanno avrei potuto portarla lassù.

Perché l’avesse chiesto ha a che fare con la natura stessa della nostra grande montagna (d’ora in poi nel testo “NGM”. Omaggio, non richiesto ma sentito, a DFW), cioè col suo aspetto e valore totemico – se ancora esistessero i totem e noi fossimo ancora una qualche specie di tribù[2].

La migliore definizione di cosa sia, per noi, la NGM l’ha data un amico di un nostro prozio emigrato negli anni ’60 in una grande città del nord – il prozio, l’amico nella grande città c’era nato. Diceva, l’amico, che a sentire i racconti del prozio sembrava che Gesù Cristo fosse stato battezzato nel fiume a fondovalle e crocifisso sulla NGM. Così era per un emigrante deportato in una metropoli dal boom economico, ma così è ancora per noi. O almeno, per una parte di noi.

È Nostra perché ci siamo nati, cresciuti e vissuti sotto – meglio: attorno – avendola negli occhi ogni giorno trascorso, e avendo lei, noi, ogni giorno sotto i suoi occhi. Abbiamo osservato i suoi cambiamenti ciclici mentre lei osservava il nostro progredire lineare, e prima di noi quello dei nostri nonni, trisavoli, antenati, fino dal principio della storia.

È Grande perché è la vetta più alta della valle, spiccando su tutte quelle che ha attorno in modo talmente evidente, inequivocabile, che viene da pensare che anche tutto il circondario di cime, creste, forcelle e crinali sia stato messo lì apposta da qualche scenografo d’ingegno per incorniciarla, per permetterle di stagliarsi il meglio possibile.

È Montagna perché non è solo una montagna – almeno per noi, o per una parte di noi. È il precipitato e il riassunto, la summa e il paradigma di tutto ciò che un ecosistema alpino è o dovrebbe essere.
Con la sua escursione altimetrica di duemila metri dal fondovalle alla cima racchiude quasi tutta la vegetazione continentale: dai salici che sfiorano l’acqua sulle sponde del fiume, fino ai licheni artici che incrostano le rocce su cui è piantata la croce sommitale. Ciò che altrove è sparso in migliaia di chilometri quadrati, qui è addensato in una linea d’aria di otto chilometri[3], in una mattinata di cammino.

Si è deciso che saremmo partiti il pomeriggio, dopo il suo rientro da scuola.
Per smezzare la salita e rendere l’esperienza un po’ più densa, potenzialmente memorabile (si trattava pur sempre di un regalo di compleanno) ci saremmo fermati al bivacco a metà strada (sentiero) dove avremmo fatto fuoco, braci e qualcosa alla griglia, dove avremmo dormito e da dove saremmo ripartiti la mattina successiva per attaccare (ma quale attacco: pellegrinare, processionare verso) la cima.
Ma un continente in otto chilometri non si dà troppo facilmente.

È forse così che si diventa rapidamente vecchi, e incattiviti e stupidi? Scavandosi da soli ogni giorno il proprio binario di abitudini.

Appena parcheggiata la macchina il sentiero parte da subito crudele tra il bosco di noccioli, faggi e carpini, senza i dolci peripli preliminari che si ritrovano altrove, nelle montagne più famose, più imponenti e accoglienti, e poi sempre crudele, erto, fastidioso fino allo sfinimento continua fino alla cima. Comunque, come sempre, il tratto iniziale è il peggiore.
C’è da allineare gli occhi con il nuovo ambiente, il fiato con la pendenza e il piede con il tipo (i diversi tipi) di terreno, se quel mondo non ci è familiare. A lei, essendo la sua prima volta lassù, c’è voluto un po’ di tempo.

«Passi brevi» le dicevo, «ritmo regolare senza strappi, senza accelerazioni brusche e rapide frenate».
«Trova la tua cadenza, qualunque sia, e quella andrà bene».
«Tre minuti, proviamo a camminare di fila tre minuti senza fermarci, che dici, va bene?»

Poi ho notato che i miei consigli la stavano infastidendo – anche se mai me l’avrebbe detto apertamente, è sempre stata troppo saggia, buona e paziente – e me ne sono stato zitto.
Io invece evidentemente non sono buono né paziente né saggio, e quel salire al rallentatore, sincopato, senza nessun vero motivo ha iniziato ad infastidirmi.
Non le ho detto più niente, ma la verità è che pensavo, contro ogni spirito pedagogico, educativo o anche solo di buon senso, pensavo “Dai, ti prego, ti prego, dai, non possiamo metterci tre ore a fare una strada di quaranta minuti ti prego” e per sfogarmi ho cominciato ad andare su e giù come i cani, aspettandola ad ogni curva.

Come se anche lì, con lei, in quell’occasione per molti aspetti fondante, archetipica – la sua prima volta sulla NGM, richiesta e privilegio che aveva riservato a me e solo a me – come se anche in quel momento non riuscissi a seguire altro che il mio passo, il mio ritmo, il mio modo di andare in montagna[4].
È forse così che si diventa rapidamente vecchi, e incattiviti e stupidi? Scavandosi da soli ogni giorno il proprio binario di abitudini, avendo cura di costruirlo ferreo perché durevole, rettilineo perché efficiente, a nostra misura perché rassicurante. E dopo aver terminato i lavori seguire solo quello, sprezzando tutto il resto.

Comunque, dopo qualche su e giù mi ero sfogato abbastanza da tornare lucido quel poco che bastava per vergognarmi di quei pensieri. Mentre la aspettavo la osservavo salire.
La faccia arrossata, i capelli appiccicati alla fronte dal sudore, si è fermata davanti a me con gli occhi stralunati, aggrappandosi ai bastoncini per restare in piedi, mi ha guardato e ha scosso la testa.
Era bellissima.

Il sentiero crudele invero si addolcisce poco prima del bivacco, affrontando un lungo traverso verso sinistra (ovest) dentro un bosco diventato di abeti, e lì ci possiamo rilassare.

Stavo per omettere questa parte della storia, anzi in verità l’avevo già omessa, ma poi invece eccomi qua, dietrofront, a sentirmi in obbligo di inserirla.

Pochissimo dopo la partenza ci hanno raggiunti tre ragazzoni attrezzati con zaini oversize ciondolanti di sacchi a pelo e pentole e materassini, e ancora prima di salutarci ci hanno chiesto se fosse nostra intenzione, come evidentemente era la loro, di passare la notte al bivacco Y. (Di nuovo, lo dico o non lo dico, questo dettaglio forse trascurabile? Lo dico. Non l’hanno chiamato “bivacco Y”, ma “bivacco Ý”).
Ho risposto di sì, e che anzi, lassù avremmo trovato ad aspettarci altri tre nostri amici con i quali avevamo programmato di passare la serata e poi la notte.

Un’ombra di preoccupazione, delusione mista a fastidio, è passata sui loro occhi mentre confrontavano il numero dei letti disponibili (da loro appreso, come l’esistenza stessa del bivacco, grazie ad un video apparso poco tempo prima su YouTube) con tutto quel traffico umano che certo non si aspettavano di trovare lì, in “uno dei luoghi meno conosciuti, antropizzati e turistici, e per questo più autentici” delle cosiddette Dolomiti – come spiegava il video che li aveva spinti in quell’avventura.

Si aspettavano una spiaggia di sabbia bianca, con delle palme protese a sfiorare l’acqua cristallina colorata dal tramonto. Invece hanno trovato quello che dev’essergli sembrato un altro Triste Tropico.
Quando si sono allontanati lei mi ha guardato, ha sorriso e ha ripetuto – a bassa voce, più feroce del sentiero: bivacco Ý.
Ho sorriso anch’io, poi le ho risposto con un aforisma che lì per lì mi è sembrato di grande effetto, una frase brillante al limite della genialità.

«Vedi M., il più grande gesto d’amore che un fratello possa fare per una sorella è forse questo. Farsi superare da un gruppo di gente di pianura[5] sulla NGM».

Siamo ripartiti, e appena usciti dal bosco di noccioli, carpini e faggi è andata meglio.
Gli occhi hanno potuto rilassarsi scoprendo una nuova prospettiva, orientarsi col nuovamente apparso fondovalle a sud, e a nord con la zona del bivacco.
In montagna – come poi, forse, in generale – il semplice fatto di trovare dei riferimenti, di potersi cioè collocare, in una triangolazione che è sì topografica ma anche esistenziale, anzi in realtà quasi del tutto esistenziale, fa tutta la differenza del mondo.
Da qui forse quello strano disagio, quella specie di agorafobia che ci prende (noi, o una parte di noi) quando alziamo gli occhi al centro di una grande pianura, e ci troviamo come naufraghi spersi in mezzo ad un mare di terra.

Il sentiero crudele invero si addolcisce poco prima del bivacco, affrontando un lungo traverso verso sinistra (ovest) dentro un bosco diventato di abeti, e lì ci possiamo rilassare. Lei si è rilassata, io mi sono rilassato, e se è vero che del doman non v’è certezza, per quel giorno ormai era fatta.
Lì abbiamo trovato i nostri tre amici di ritorno da un altro itinerario e i tre ragazzoni, arrivati poco prima di noi.

Finalmente eravamo di nuovo da soli ad approcciare l’ultimo tratto del nostro personale Golgota, o Sinai, o Ararat.

Otto persone, quattro letti.
Qualcuno dormirà sulle brande, qualcun altro per terra.
Fatto legna, acceso il caminetto sotto la tettoia e imbastito l’aperitivo (birre, pane e salame).
Durante la cena (vino rosso, salsicce e formaggio alla griglia noi; loro non ricordo, forse altro tipo di carne, forse costicine, forse bistecche, forse tutte e due. Di certo, vino rosso più elegante del nostro) contro ogni probabilità e, vista l’ora, ragionevolezza, sono arrivate altre due persone, una coppia. Lui dei dintorni, lei pugliese.

Dieci persone, sempre quattro letti.
Qualcuno dormirà sulle brande, qualcun altro per terra, qualcun altro ancora fuori.
Chiacchieriamo, scambi di vino e confidenze varie, ad un certo punto ci siamo accorti che la legna iniziava a scarseggiare.
E lì uno dei tre ragazzoni – lo stesso che quando ci eravamo incrociati la prima volta mi aveva chiesto della nostra meta – ha detto una cosa che alle sue orecchie senza dubbio dev’essere sembrata cortese, ma che alle mie ha fatto un effetto strano.

«Se volete, prendete pure la nostra legna».
La loro legna.

Fino a quel punto, non ci eravamo neanche accorti, avevamo usato la legna che nella sua ottica avevamo fatto noi, cioè quello che era stato da loro riconosciuto come il nostro gruppetto di cinque persone: io, lei e i nostri tre amici; e allora in quel momento lui, che dei tre era evidentemente il capo, in qualche modo, chissà perché poi, per via della parlantina credo, o per dei genitori che da piccolo l’avevano esageratamente viziato, figlio unico scommetterei, se dovessi farlo, ebbene lui, in quel momento ci ha fatto presente che sì, se avessimo voluto ci dava il permesso di adoperare, per riscaldare e illuminare e  rallegrare e consolare tutti, anche la loro legna.[6]

La mattina dopo abbiamo fatto colazione, salutato tutti, amici vecchi e conoscenti nuovi, qualcuno ha imboccato la strada verso il basso, qualcuno verso l’alto, io e lei abbiamo ripreso il nostro sentiero.
Finalmente eravamo di nuovo da soli ad approcciare l’ultimo tratto del nostro personale Golgota, o Sinai, o Ararat.
Subito dopo il bivacco il bosco di abeti finisce e siamo usciti in un lungo pendio erboso punteggiato qui e là da ciuffi di abeti, qualche larice solitario, le prime macchie di mughi, che porta all’attacco della cuspide sommitale.
La visuale da lì in avanti si è spalancata e lo sarebbe rimasta fino alla cima (di nuovo occhi che si rilassano, trovano una collocazione e uno scopo grazie ad una nuova prospettiva) e già potevamo vedere la croce che scintillava al sole, per noi come la stella cometa.

Il sentiero ha piegato verso destra (est) e improvvisamente la cima ha cambiato forma, rivelando di colpo il suo lato più cupo e tagliente, quello della spaventosa parete nord-est, un abisso di quasi mille metri che finisce in una valle quasi inaccessibile.
Abbiamo continuato a salire con in faccia quella prospettiva, è più salivamo più mi tornava in mente il periodo, anche lui cupo, spaventoso e tagliente, in cui la NGM era diventata per me una divinità troppo intransigente. Una madre troppo taciturna, che mi costringeva dall’alto della sua imponenza, che mi annichiliva con la maestosità dei suoi bastioni calcarei, che mi imprigionava nella fredda stretta delle sue braccia minerali.

Davanti a noi, verso sud, ci è apparso non il solito panorama che nelle giornate limpide abbraccia tutto il Veneto e buona parte del Friuli fino al mare, da Trieste a Chioggia. 

Morirò schiacciato dalla sua mole, pensavo allora, finirò soffocato e marcito dalla sua ombra che non lascia passare l’aria e il sole, e se li lascia penetrare sono sempre solo sole e aria filtrati e decisi da lui, dal suo orizzonte che stabilisce la quantità di cielo a noi concessa, le ore di luce, la forma del vento.
Avevo bisogno di scappare e infatti sono scappato, cinque anni e cinquecento chilometri distante, per mettere tempo e distanza da quel dio padre che in quel periodo si era fatto per me patrigno e demonio.

Poi il sentiero è svoltato di nuovo verso sinistra (ovest), l’abisso è scomparso dalla nostra vista e la cima è tornata alla sua solita forma, una cupola arrotondata e familiare.
Quello che restava poco familiare, per lei almeno, era il breve passaggio che a quel punto avevamo di fronte, lì dove i prati finivano e iniziava l’ultimo tratto, un mondo ormai lontanissimo dal fondovalle rigoglioso, fatto solo di rocce, mughi e licheni, per accedere al quale occorreva affrontare il punto chiave di tutta la salita, la soglia di quel mondo – un breve traverso esposto quel tanto che basta da non potersi permettere errori.
Prima io, poi lei.

«Se hai paura non c’è problema, mi dici e ci fermiamo, ti aiuto e non c’è nessuna fretta. Con calma, un passetto alla volta. La roccia è buona, vedi? Tiene. Ma se a un certo punto non te la senti non succede niente e torniamo indietro».

Vado e lei dietro.
Calibro i passi perché possa ricalcarli.
Appoggio con calma la mano sinistra sugli appigli in modo che abbia il tempo di vederli e riconoscerli, e passiamo.

«Tutto qua?» ha chiesto una volta oltrepassata la soglia.

Dopo la soglia, ammansito Cerbero, non rimaneva che mezz’oretta di quelle che le guide CAI definiscono “facili roccette”, (che quasi mai, poi, lo sono davvero) ma sempre ben riparate, sempre appoggiate a un diedro o da qualche rientranza, sempre chiuse da quinte di mughi.
Ultimi passi e siamo arrivati in cima, alla croce sommitale[7].
Si è seduta, arrossita e strafumata, buttando lo zaino alla base della croce.

Davanti a noi, verso sud, ci è apparso non il solito panorama che nelle giornate limpide abbraccia tutto il Veneto e buona parte del Friuli fino al mare, da Trieste a Chioggia (molti dicono che dalla cima della NGM nelle giornate limpidissime s’intraveda nientemeno che il campanile di Venezia. Sempre avuto molti dubbi a riguardo. Almeno, ad occhio nudo), ma un orizzonte da cosmonauti: solo uno sconfinato tappeto di nuvole, uniforme e densissimo, che partiva da poco sotto la cima e si srotolava si sarebbe detto per sempre, coprendo le Prealpi e la pianura e il mare come dovesse arrivare almeno fino all’Africa e poi anche oltre, sopra tutto il resto del creato, a segnare la distanza – e la differenza, in quel momento – tra noi e tutto il resto del mondo.

C’erano altri cosmonauti lassù, assieme a noi.
Qualcuno di loro aveva percorso la breve cresta che dalla croce porta ad un cippo metallico cento metri più a nord, la cima vera e propria.

Era stanca, a disagio in un territorio di rocce, pini mughi e licheni in cui non era mai stata.

Lei ha voluto andare a vedere il panorama da quel versante che, libero da tappeti di nuvole, spaziava in un altrettanto apparentemente infinito mare di cime dolomitiche®.
Lei procedeva spedita, nessuna paura, non sentiva il richiamo del baratro che alla nostra destra (nord-est) s’inabissava verticale per quasi mille metri, baratro-voragine-parete che fin dagli anni ‘30 aveva richiamato il fiore degli arrampicatori europei e che ancora oggi è pochissimo o nulla frequentata per via della sua difficoltà, lunghezza e pericolosità, data dalla mancanza di protezioni sicure in quella roccia marcia.

Lei procedeva spedita, io invece tentennavo, balbettavo dei passi, mentre pensavo a quella frase di Nietzsche, “Quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”, accorgendomi di non averla mai capita davvero fino a quel momento.
Ho cercato di dissimulare ma senza riuscirci, finché, bluffando, le ho chiesto se non avesse paura, se non avrebbe preferito tornare indietro.

«Io no, ma tu sì. Torniamo indietro dai».

Poi, come sempre, è venuto il momento di scendere. Una dedica sul libro di vetta, un saluto alla croce del nonno[8], un saluto al tappeto infinito di nuvole, e siamo ripartiti.
Lei scendeva lentamente, e io dentro di me ho ricominciato a spazientirmi, di nuovo (forse non s’impara mai davvero niente di nuovo nella vita, dopo i 20 anni), di nuovo avanti e indietro come i cani, lei ogni tanto si fermava e mi diceva «Guarda che belle le stelle alpine», anche se poi erano cardi.
Ma non si lamentava.

Era stanca, a disagio in un territorio di rocce, pini mughi e licheni in cui non era mai stata.
Dove io saltavo da un sasso all’altro lei doveva sedersi e lasciarsi scivolare sul sedere.
Dove io accennavo due passi di corsa sul ghiaino lei testava ogni impronta, diffidente sulla tenuta del suo piede sulla ghiaia, ma non si lamentava.
Né con le parole, né con un gesto, né con un’espressione del viso.
Non si lamentava mai.

Come quella volta a Torino in cui aveva sei anni, sei, e era venuta a stare da me una settimana nelle vacanze tra la prima e la seconda elementare e negli ultimi tre giorni le era salita la febbre altissima, io non sapevo che fare, l’avevo messa nel mio letto e le portavo dei canovacci bagnati freddi, e a un certo punto avendo finito tutte le mie peraltro poche opzioni le ho chiesto se volesse tornare a casa, a casa da nostra mamma, casa e mamma sue, mie, nostre che stavano cinquecento chilometri più a est, e lei mi ha detto – a sei anni e con la febbre a 39 e mezzo: «No, dai, per favore, restiamo qua».

E allora mi sono vergognato, di nuovo, e mi sono sentito piccolo, io con le mie gambe lunghe, insufficiente, io col mio cuore allenato, immaturo, io coi miei quasi vent’anni in più, e mentre continuavamo a scendere e saltavo da un sasso all’altro, e poi da una radice all’altra tornati nel bosco, e poi da una foglia all’altra nell’ultimo tratto di sentiero, ho pensato che forse i miei occhi ormai erano diventati definitivamente vecchi e stanchi e scoloriti, e chissà se esisteva un allenamento per quelli, anzi una riabilitazione, la parola giusta era quella, riabilitazione.

Quando finalmente siamo arrivati alla macchina l’ho guardata e l’ho vista sorridere, ancora.
Mentre la osservavo togliersi gli scarponi, appoggiata al bagagliaio aperto, ho pensato che quando accompagni qualcuno a fare qualcosa per la prima volta – specie se di quel qualcuno ti importa molto e a quella cosa tieni tanto – è un po’ come se la stessi facendo anche tu, di nuovo, per la prima volta.

E dunque, cosa resta alla fine del viaggio?
Forse niente, forse tutto, forse chissà.
Forse solo questo.
Lei, d’ora in poi, quando alzerà la testa e guarderà la NGM la sentirà un po’ più sua.
E io, un po’ più nostra.
Più mia, più sua. Più di tutti.

_____
[1]
E in generale, forse, in tutto quello che c’è d’importante e sensato nella vita. Che vorrebbe dire anche, assumendo per vero quest’assunto, che laddove esista un obbligo (spinta esterna, costrizione) alle cose importanti non sia dato esistere davvero. Ma sarà poi vero?

[2] Ma cosa sono i posti di montagna se non piccoli pezzi di territorio (riserve) in cui esistono ancora, in qualche modo, stralci di tribù con le loro leggi bizzarre, spesso oscure agli esterni, e i loro riti affascinanti e allo stesso tempo retrogradi, inattuali? Non è questo il motivo primo per cui è nato, cresciuto e poi esploso il turismo delle cosiddette “Terre Alte”, fino a far diventare la montagna (territorio montano) un altro Triste Tropico? Ma basta domande divaganti.

[3] Dato metrico, quest’ultimo, utile sotto l’aspetto scientifico della sopracitata questione, ma del tutto inadatto, anzi fuorviante, per capire davvero l’idea, per così dire, antropologica che abbiamo noi – o alcuni di noi – della NGM. Quando per calcolarlo (anzi, per farlo calcolare dall’algoritmo) ho aperto Google Earth e ho attivato la funzione righello, e già che c’ero poi ho misurato anche la distanza tra la cima e casa mia (4,47 km) scoprendo così per la prima volta la distanza esatta, cruda, reale, matematica che c’è sempre stata tra me e la NGM, ebbene in quel momento ho provato qualcosa a metà tra la curiosità e il timore, tra l’eccitante e il sacrilego, come forse dev’essersi sentito l’egittologo Howard Carter la mattina in cui scese i gradini che l’avrebbero portato, primo uomo dopo tremilatrecento anni, ad entrare nella tomba di Tutankhamon. Questo perché la NGM per noi è ed è sempre stata tutto l’orizzonte, il palcoscenico dentro il quale abbiamo vissuto le nostre vite, anche quando le nostre vite erano vissute altrove, come dimostra la storia del prozio; e in quanto orizzonte è ed è sempre stata per definizione senza misura, incalcolabile in termini scientifici; o meglio in termini scientifici calcolabile, ma non comprensibile. L’altezza, certo, quella l’abbiamo sempre saputa. Un po’ sopra i 2000 metri. Ma quel dato non ha fatto altro che educarci fin da piccoli alla sua lontananza, a rendere più tangibile la sua alterità, a sottolineare la differenza inconciliabile tra il nostro fondovalle di acacie, case e fabbriche e la sua cima di mughi, rocce e licheni. La verità, dovendola dire tutta, è che per noi – o per alcuni di noi – la NGM è una divinità. E delle divinità, avendo un minimo di intelligenza, non si dovrebbe mai cercare di sapere troppo.

[4] Passo, ritmo e modo che da molto tempo sono quelli di chi sale sulla NGM non per guardare il panorama, o almeno non soltanto, ma piuttosto con lo scopo preciso di cercare di salvarsi la vita. È forse questa la principale caratteristica della NGM, se dovessi spiegare cos’è, ora come ora, per meÈ un farmaco salvavita che so di avere sempre con me. A volte mi basta solo mettere la mano in tasca e rigirarmelo tra le dita, sapere che c’è. Altre volte è necessario prendere la pastiglia, che in questo caso significa ritagliarsi un po’ di tempo, fare un minimo di zaino, vestirsi e partire. Maupassant diceva di non aver mai conosciuto un dolore che un’ora di buona lettura non avesse dissipato. Solo parzialmente d’accordo. Un’ora di corsa in montagna, in certi casi di dolore particolarmente acuto, l’ho sempre trovata una medicina molto più efficace.

[5] Lo so, lo so. Ci tornerò.

[6] Eccomici tornato. Questa sarà con ogni probabilità la parte più controversa e criticabile di tutta la storia. Ma se uno non vuol essere criticato né generare controversie meglio forse non scriva mai niente. Quindi pazienza, e avanti. La loro legna, si diceva. Poi poveretti sti tre, non è che ci abbiano fatto in realtà nulla di male, com’è chiaro dal racconto. Quello che però vorrei provare a sottolineare è un’altra cosa, cioè un certo atteggiamento che spesso si ritrova in chi, nato e cresciuto in pianura arriva quassù. Non è il problema di un accento sbagliato, naturalmente. Né, come spesso fin troppo si sottolinea, dell’attrezzatura inadeguata o questione simili. Il punto è l’ottica, come dire, colonizzatrice attraverso cui il più delle volte avviene quest’approccio. (D’altronde i territori montani sono sempre più visti e dunque trattati come delle riserve, si è detto all’inizio; quindi in realtà non dovrebbe stupire.)

È colonizzatrice nel senso più ampio, cioè quello di una maggioranza che impone la propria visione del mondo e il proprio stile di vita a una minoranza ritenuta per qualche ragione subalterna. È colonizzatrice perché pretende di portare regole che vigono altrove – in pianura, in questo caso – in un luogo con caratteristiche e specificità del tutto diverse, senza mai o quasi darsi la pena prima di conoscerle e poi di rispettarle. È colonizzatrice perché tende ad appiattire tutto su un unico orizzonte possibile, quello dominante, a fagocitare ogni nuovo ingrediente dentro un unico immenso calderone in cui i sapori si diluiscono fino a non sapere più di niente. Se si va in montagna come si va a Jesolo, a Riccione o ad Ibiza, con le stesse aspettative e pretese, allora la montagna non esiste più. Di nuovo, non ce l’ho con quei tre ragazzi nello specifico, vorrei fosse chiaro. Hanno solo avuto la sfortuna di essere lo spunto per questo discorso molto più ampio (e controverso, e criticabile). Un discorso le cui criticità e controversie derivano dal fatto che viene da qualcuno che è nato e cresciuto in questa piccola strana provincia, l’unica totalmente montuosa di una regione altrimenti pianeggiante, l’unica poco (e sempre meno) abitata di una regione altrimenti densissima di popolazione, l’unica abbastanza povera di una regione altrimenti ricca e a tratti ricchissima.

Sto quindi dicendo che solo noi, nati e cresciuti sotto la NGM, abbiamo diritto a frequentarla, essendo noi i soli depositari del sapere antico necessario ad officiare correttamente tutti i riti previsti dalla liturgia alpino-dolomitica? No, naturalmente. No. Anche perché io posso essere di casa qui, ma sono già forestiero a dieci, venti chilometri di distanza, quando cioè mi avvicino alla GM di qualcun’altro, magari anch’io sbagliandone l’accento. Anche perché mi ricorderò sempre un sabato mattina, tetro e piovosissimo, di fine Ottobre, in cui stavo bevendo il caffè dentro il bivacco nel mio posto preferito al mondo (non a caso giusto dietro la NGM) in cui avevo deciso di passare due settimane, e insomma dentro quella mattina infausta in cui il mio piano era soltanto di starmene seduto affianco al fuoco a leggere e bere thè e caffè, a un certo punto ho sentito dei rumori fuori da bivacco, sono uscito e ho visto una persona, un uomo, che al riparo della tettoia si era tolto la giacca fradicia e si stava asciugando il resto, fradicio altrettanto, in qualche modo.
L’ho fatto entrare e mi ha raccontato che era partito la mattina prestissimo da una città di pianura, aveva fatto due ore di macchina sotto il diluvio e poi due e mezza a piedi, sempre da solo, sempre sotto quel nubifragio sempre più battente (ancora non lo sapevamo, ma quel nubifragio avrebbe continuato a peggiorare fino a deflagrare tutta la sua potenza appena 48 ore dopo, in quella che avremmo poi ricordato come Tempesta Vaia) soltanto per passare un po’ di tempo lassù, in quel luogo che gli piaceva tanto. E altrettante ore bagnate avrebbe fatto per tornare a casa. E io niente, non ho potuto che ammirarlo, pensando a quanto si debba amare la montagna per smazzarsi tutta quella strada in quelle condizioni così infelici, e sentirmi piccolo e immeritevole.

Del fatto che la montagna non sia un luogo esclusivo accessibile soltanto a qualche sedicente élite ne ha parlato molto bene Federico Sordini – che non a caso si definisce “montanaro DOC (Di Origine Cittadina)” – in questo articolo, in cui denuncia la spocchia con cui una supposta “Comunità degli amanti della Montagna” critica Carlo Budel, il rifugista di Capanna Punta Penia sulla Marmolada. Cosa ci fa un operaio nel punto più alto delle Dolomiti? Come fa a gestire un rifugio così difficile una persona così inesperta, appassionata di macchine da corsa? Una persona che non fa l’8b, che non ha aperto vie di roccia e non è un provetto sci alpinista, che non è nemmeno del soccorso alpino?”. Qualcuno, cioè, che non corrisponde ai canoni di “disciplina ed austerità, privazioni e sofferenza, autocontrollo e coraggio, sfida e limite. Insomma, quel trito ottocentesco che si trova in molti blog di montagna ed è caro alla letteratura contemporanea lombardo veneta, roba un po’ patriarcale che ammicca ad un pensiero romantico di destra.”. 

D’accordo dalla prima all’ultima parola, personalmente. E dunque, come si fa? Forse non si fa, forse non c’è risposta e basta. O forse basterebbe rispettare tutti una piccola e semplice accortezza, una qualità che proprio la montagna (tutte le montagne, non solo la NGM) aiuta o dovrebbe aiutare ad allenare, molto prima dei muscoli e dell’apparato cardio-circolatorio. Una virtù capace di disinnescare in un colpo solo sia l’ottica colonizzatrice che il conservatorismo sacerdotale. Qualcosa che Sordini cita giusto alla fine del suo articolo: “una dote molto rara negli uomini… l’umiltà.”.

[7] Leggenda familiare vuole che tra gli ardimentosi che portarono lassù la prima croce, sul finire degli anni ‘40, ci fosse anche nostro nonno materno. Quello che è certo è che quella è stata la prima e unica volta in cui il sopracitato progenitore ha messo piede lassù, pur avendo vissuto sotto la NGM non meno di 91 anni. Misteri della vita.

[8] Vedi nota n° 7.

Fabio Dal Pan

Fabio Dal Pan

Mi chiamo Fabio Dal Pan, abito sotto le prime Dolomiti. Niente, mi piace scrivere, leggere e andare in montagna. Anche in bicicletta, ma soprattutto in montagna.


Il mio blog | Eleggo altitudini.it come la mia rivista digitale. Cercavo una cosa del genere da molto tempo e non la trovavo mai. Poi ho visto voi. Grazie mille, davvero.
Link al blog

7 commenti:

  1. Aba ha detto:

    Sono di parte, conosco i soggetti, ma non credo di essere ingiusta nel dire che è un testo bellissimo ed emozionante. Quando, leggendo, i soggetti descritti si materializzano, significa che lo scrittore ha fatto goal. Bravo Fabio.

  2. Chiara ha detto:

    Questo pezzo, come altri dell’autore, contengono una magia che per una frazione di secondo ti porta in cima alla montagna con i protagonisti a godere della stessa meraviglia.
    Un respiro di aria fresca in una giornata qualunque.

  3. Jussi Jussi ha detto:

    Complimenti… Sono tornato in uno dei miei posti preferiti… Grazie

  4. Betta ha detto:

    Tranquillo, non stai invecchiando!

  5. Nivesc68@gmail.com ha detto:

    Ho letto tutto in un fiato,che dire,emozionante…Scritto davvero col cuore.
    Sicuramente aspetteremo altri racconti da te Fabio,le nostre montagne sono uniche ,in tutto !

  6. Fabio Fabio ha detto:

    Molte grazie

  7. Dende ha detto:

    Un efficace rimedio, un cerotto resistente, uno sciroppo al miele e erbe alpine questo tuo racconto Fabio, fratello acquisito se posso permettermi, per una expat alle prese con la nostalgia di casa, o con il “mal du pays” come lo chiamano qui! Grazie.

    Chi lo sa, magari la prossima volta mi aggancio a voi… per un altro battesimo della NGM, visto che questo check manca anche sulla mia lista di vita.

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