Lo sapevo, ma in fondo speravo di poter passare indenne questa settimana all'Equatore.
Di non vederne neanche uno, di poter far finta di niente e continuare il viaggio a cuor leggero. Ho una stanza a Roça Monte Forte, una vecchia residenza coloniale in mezzo alla foresta pluviale, vicino a Neves, nell’isola africana di São Tomé. Ho paura dei ragni, e in questa notte afosa di dicembre mi rigiro nel lenzuolo umido. La zanzariera ricopre il mio letto, spengo tutto per ascoltare meglio. Fuori, la notte equatoriale mormora. L’acqua del temporale pomeridiano rievapora dai tronchi degli alberi del pane e dalle foglie dei banani.
Decine di rumori sconosciuti si intrecciano in una sinfonia lieve, tenebrosa per me che non conosco niente di questo posto. Mi alzo per andare in bagno e accendo la luce. Con un movimento rapidissimo, si sposta sulla tenda della doccia, nascondendosi dentro un piega. Ora ne vedo spuntare solo una zampa. Sento i miei piedi nudi sul pavimento umido e non riesco a muovermi. Con il cuore in gola tocco la tenda con il manico di una scopa e il ragno si muove sul soffitto. Lo vedo in tutto il suo terribile aspetto. Ha zampe lunghe e affusolate come dita di una vecchia e un corpo agile e castano. La sua presenza mi turba nel profondo. Mi chino e raccolgo una maglietta zuppa d’acqua che avevo gettato a terra al rientro in camera dopo il temporale. Dal basso verso l’alto, gliela lancio contro. Il suono del cotone fradicio contro il muro indica che la mossa potrebbe aver avuto successo, poi tutto ricade verso il basso, maglietta e ragno, dentro al lavandino. Da quel momento, non voglio saperne più niente. Sono sicuro che sia lì, nascosto tra le pieghe, ma non ho la forza di fare nient’altro. Mi arrendo e mi lascio inghiottire dal letto nella notte equatoriale.
La mattina Osvaldo mi propone un’escursione a piedi sulle montagne dietro casa, con l’obiettivo di raggiungere quella che lui dice essere la cascata più bella di São Tomé. Osvaldo ha 18 anni e ciabatte infradito e mi precede nel sentiero fangoso con passo svelto. Nell’aria c’è odore di legno umido, terra fradicia, sterco e mango. Mi racconta che le specie arboree della foresta pluviale si classificano in base ai vari livelli di altezza e capacità di esporsi alla luce. Nel punto in cui la vegetazione si dirada capisco meglio dove siamo finiti dopo un’ora di cammino. I fianchi scoscesi delle montagne di origine vulcanica sui quali ci muoviamo si raccolgono attorno al Pico de São Tomé, con i suoi 2024 metri la vetta più alta dell’Isola, perennemente immersa nelle nuvole. Qui piove ogni giorno. La cascata Angolar è in quella direzione.
«Hai una lampadina nel tuo telefono?»
«No, perché?»
«Per arrivare alla cascata adesso dobbiamo entrare lì dentro, in quel tunnel, ci farebbe comodo una luce, ma va bene lo stesso»
«Là dentro in quel buco? Non so se ci riesco»
«Tranquillo, è una tunnel per la canalizzazione delle piogge. Cammineremo dentro il condotto in cui scorre l’acqua, non ti preoccupare, ancora non è l’ora del temporale e il livello non si alzerà»
I primi passi sono i peggiori. Sento l’acqua salire oltre la caviglia, poi fino al polpaccio. Il buio è totale e la volta della galleria finisce appena sopra la mia testa. Cerco di scorgere almeno una luce in fondo, ma niente. Solo piedi freddi e Osvaldo che batte le mani per scacciare i pipistrelli. Penso ai serpenti della foresta pluviale che potrebbero nascondersi in quest’acqua nera, la luce tenue dello schermo dello smartphone non basta neanche a vedere Osvaldo, davanti a me, in infradito. Penso che sul Pico de São Tomé adesso potrebbe abbattersi un temporale e noi saremmo travolti dall’acqua, perché in fondo Osvaldo ha solo 18 anni, potrebbe essere una guida poco esperta e io mi sto fidando di lui ciecamente. Io a 18 anni ho fatto cose senza senso, sarebbe una morte assurda, affogato in un tunnel pieno di pipistrelli. Ora non parliamo neanche più. Ormai è solo la disperazione a spingermi avanti. A metà del tunnel, lungo oltre 100 metri, vedo la luce.
«Dai che ci siamo, ne vale la pena, vedrai»
Fuori dalla galleria, la luce rischiara migliaia di goccioline nebulizzate di una cascata che precipita da uno strapiombo di rocce vulcaniche. No riesco a parlare. Pochi attimi prima pensavo alla morte, ora la vita mi investe come un treno in corsa.
«Vuoi un a foto ricordo?»
La veemenza dell’acqua è tale da non resistere sotto alla cascata per più di due secondi. Mi lascio travolgere e sprofondo. Sento un ritorno alle origini. Qualcosa di primordiale che fa parte di me, di molto nascosto, è riemerso, all’Equatore.